Fisica

CHE COSA SIA LA LUCE

Questo quisito ha dato, e dà tuttavia da pensare a molti Filosofi grandi. Il Cardano nel 4. De subtilitate disse, che il lume, la chiarezza, e il calore non erano tre cose, ma una sola in tre nomi: e poco appresso soggiunse, Quod lumen corpus non est, sed imago lucis, quae meatibus non indiget, veluti nec calor; calor autem magis corporeus est. Ma se conforme all’opinione del Cardano il lume, e il calore sono lo stesso: dove è lume, sarà parimente calore, e dove è calor, sarà lume: ma dove non è lume, molte volte è calore, come nelle stufe, e ne’ forni; adunque il calore, e il lume sono diversi. Similmente ripigliando l’altro capo; se il lume, e il calore sono lo stesso, dove è lume, sarà eziandio calore; ma nelle lucciole è lume, e lume splendente, come anche nelle gioie, e non vi si conosce calore alcuno, anzi il medesimo Cardano dice, che le gioie si conoscon dalla freddezza; adunque il lume non è calore. Di più se il lume è calore, dove arriva il lume, arriverà anche il calore: ma il calore non giugne, dove arriva il lume, come nelle lucerne, e nelle facelle si può vedere; adunque sono differenti il calore, e il lume. Ultimamente dicendo l’istesso Cardano, che il calore è più corporeo del lume; adunque sono diversi.
Il Telesio nel capo quattordicesimo del 4. Lib. De rerum natura, scostandosi un poco, non disse, che la luce fosse propriamente calore: ma la chiamò spezie di calore, e conchiuse, ch’ella fosse calda, come anche tenne Antonio Bernardo Mirandolano nella 3. parte del lib. 21. De eversione singularis certaminis. Ma contra il Mirandolano, e contra il Telesio, che la luce non sia calda, io argomento così. Se la luce fosse calda, sarebbe corpo; ma ella non è corpo; adunque non è calda.
Che essendo calda dovesse di necessità esser corpo, è chiaro; poichè essendo la caldezza qualità di corpo caldo, e non sostentandosi accidente sovra accidente, il calore sarebbe in lei come in suggetto corporeo. Che la luce non sia corpo, si prova con l’autorità d’Aristotile nel 69. del 2. dell’Anima, e colla ragione, conciosiache s’ella fosse corpo, due corpi penetrandosi l’un l’altro sarebbono nell’istesso luogo, il che non può essere. E che ciò di necessità seguisse, è manifesto: poichè dove è luce, è aria, o almen corpo diafano: e se la luce fosse corpo, la luce, e l’aria occuperebbono lo stesso luogo, penetrandosi l’una l’altra. Che parimente la luce non sia corpo, lo provò Alessandro nel 36. del 2. dell’Anima: imperochè ella non illuminerebbe le cose vicine, e le distanti in un medesimo tempo, havendo il moto locale de’ corpi necessità d’intervallo, e tanto più in una distanza, come è di Cielo in terra. Oltr’a ciò essendo le tenebre contrarie alla luce, anch’elle sarebbono corpo. E’l lume, che nelle stanze penetra, chiudendosi le fenestre vi rimarebbe; E l’acqua, che scorre, lo portarebbe con esso lei, passando per l’ombre, di maniera che ne i fiumi di giorno non vi sarebbe mai ombra alcuna.
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PERCHE’ L’OLIO STIA SOPRA L’ACQUA

L’olio sta sopra l’acqua, perchè è più caldo, e spiritoso, e in conseguenza più leggiero, secondo i principij posti da noi. Ch’ei sia più caldo, e spiritoso, si vede, ch’egli arde, e s’accende toccato dalla fiamma, cosa, che l’acqua per la sua freddezza non la può fare. Ch’ei sia più leggiero, si chiarisce col peso, perciochè l’istesso vaso pesa molto più pieno d’acqua, che pieno d’olio. E di qui si può anche vedere quello, che altrove dicemmo, che i principij del leggiero, e del grave sono il freddo, e il caldo. Federico Pendasio, che a dì nostri è stato un nuovo Aristotile, lasciò scritto nel suo libro De natura corporum coelestium, Quod lignum, et oleum sunt per compositionem media, quae in causa est, ut forma quoque virtutem mediam retineat, neque gravitati simpliciter, aut levitati addicta sit. Aristotile nel 4. delle Meteore al 3. capo favellando dell’olio disse, Quod quia plenum est aere, ideo aquae supernatat, il che fu anco confirmato da Plutarco De primo frigido, ove disse, Quod de reliquis humoribus maxime pellucidum est oleum, quia plurimum in se habet aeris. E questa è similmente la cagione, che’l ghiaccio sia lucido, e nuoti anch’egli nell’acqua a galla. Agellio nel lib. 17. ricercò, perchè l’olio sì agevolmente si geli, e non si geli l’aceto, che è più freddo di lui, e non seppe ritrovar la cagione. Che l’aceto non si geli, è bugia, perchè nelle Provincie, dove è gran freddo, io l’ho veduto gelato all’uscita della botte. Ma l’olio non si congela già come l’aceto, nè come l’acqua, ancor che si condensi più agevolmente nell’aer freddo, la qual condensazione gli viene dalla sua origine, essendo egli sugo di materia densata, liquefatto per forza di calore; onde ogni poco d’aiuto, ch’egli habbia, cerca di ritornare al suo primo principio, come anche fanno il grasso, e’l burro. Ma l’aceto vien da materia sugosa, e molle di sua natura senza calore alterata, e però non è così agevole da congelarsi. Omero Poeta dando il suo epiteto ad ogni licore, chiamò l’olio umido, qualità che gli viene dal predominio dell’aria, la quale nell’umido sovrasta a gli altri elementi: e però vediamo, che l’olio ha per proprio il diffondersi, come ha l’aria medesima, che si dilata per tutto.

PERCHE’ NEL MEDISIMO CLIMA SIA MAGGIOR FREDDO NELLE MONTAGNE, CHE NELLE PIANURE

I luoghi alti, e rilevati, sono sempre più signoreggiati da’ venti, che non sono i bassi; nondimeno la principal cagione del caldo delle pianure, e delle valli, pare, che dal riflesso de’ raggi del Sole proceda, che sempre nelle pianure, e nelle valli si fa più unito, e gagliardo, che nelle cime de’ monti, dove poco riflesso si fa: perchè sendo i monti di figura piramidale, i raggi non si riflettono, nè si fermano in essi, ma sfuggono all’ingiù dissipandosi (intend’io però sempre per raggi l’aria illuminata, e riscaldata dal Sole per diritta riga, e non per riflesso.) E da questo pare anche avvenire, che i monti quanto più alti, tanto più freddi siano; per esser tanto più elevati, e rimoti da’ luoghi concavi, e piani, dove il riflesso de’ raggi si fa gagliardo, e unito. Aggiungo eziandio, che (oltre il riflesso) la densità dell’aria è cagione, che sia maggiore il caldo nelle pianure, per li vapori, che sono in essa: perochè l’aria delle montagne per la poca umidità del terreno sempre ha più del purgato, e del puro: Si che il calor del Sole non può fare in essa quella impressione, che fa ne’ luoghi bassi, dove è quantità di vapori, i quali oltra il calor proprio, ricevono anco più tenacemente il calor del Sole, che li ferisce. Hannosi alcuni creduto, che ciò proceda dall’essere le cime de’ monti più vicine alla mezzana regione dell’aria tenuta comunemente per fredda. Ma io ho per leggerezza puerile il credere, che cosa alcuna fondata in terra arrivi alla mezzana regione dell’aria, se non intendiamo per mezzana regione quella parte, dove i vapori grossi difficilmente s’innalzano dalle pianure più basse. Benchè in questo ancora sieno difficultà non leggieri, provando il Cardano con ragion Matematica nel libro De Luce, che i vapori s’alzano per lo spazio di 288. miglia, e che possono alzarsi anche di più.

PERCHE’ SE’L FREDDO E’ QUELLO, CHE IMBIANCA, AL BUCATO S’ADOPRI L’ACQUA BOLLENTE

Plutarco nella 9. del I. libro delle quistioni sue convivali ricercando, perchè le vesti si lavino meglio coll’acqua dolce, che con la salsa, considera se fosse vera la ragione da Aristotile addotta ne’ suoi Problemi, cioè che l’acqua marina, come grossa, terrea, e salsuginosa, non penetri agevolmente ne’ panni, come la dolce, che è sottile, leggiera, e pura; e tiene, che tal risposta non basti, vedendo noi, che l’acqua dolce, quando si vuole, che lavi meglio, si mette a bollire con cenere, e si fa terrea, e s’ingrossa. Il perchè si risolve a dire, che ciò venga più tosto dalla grassezza dell’acqua del mare, proprietà attribuitagli eziandio da Atristotile con varj argomenti nel 3. della sezione 23. la qual grassezza congiunta colla natural calidità dell’acqua marina contraria alla candidezza, impedisca l’imbiancamento de’ panni;  vedendo noi, che le cose ingrassate diventano livide, e perdono la bianchezza, e la purità. Ma conchiude, che‘l principal fondamento consista nell’asciugarsi; perciochè l’acqua dolce, come pura, e leggiera resta agevolmente svaporata dal Sole insieme colle macchie, e brutture: ma la marina per la grassezza, e densità sua, fermandosi ne’ meati, non esce, e non isvapora, e perciò i panni si rimangono lividi. Che quantunque Aristotile nell’8. della già detta sezione affermi, che quelli, che nuotano nel mare, più tosto si rasciughino al Sole di quelli, che nuotano nell’acqua dolce, ciò tiene Plutarco, che non sia vero, dicendo, che avvegna, che le parti leggieri si rasciughino tosto, le salsuginose però rimangono su la carne, nè se ne vanno senza lavarle con acqua dolce, come ben finse Omero, ch’Ulisse facesse dopo, ch’ei fu appresentato a Nausichea tutto lordo, e brutto della salsugine, e della schiuma del mare. Ora stando questo, io addimando, se tra le cagioni, che fanno, che l’acqua marina non lavi, sono principalissime la calidità, la grassezza, e la grossezza; perchè quando le donne fanno il bucato, mettono a bollire l’acqua, e la ingrossano colla cenere, e la ingrassano col sapone?
Rispondesi, che quanto allo scaldar dell’acqua, ciò non si fa per imbiancare (anzi che le cose, che s’imbiancano, si tengono al sereno, e al freddo) ma per ammollire, e liquefar il succidume, e le macchie, acciò che poi tanto più agevolmente possan lavarsi, avendo il calore (come altrove si è detto) virtù di stemperare, e disgregare: E vi s’aggiugne il sapone, e la cenere, non perchè ne anche questi habbiano virtù d’imbiancare, ma perchè l’uno, e l’altro ha dell’estersivo, per esser materie nitrose, e atte a staccare, e macerare, e purgar le brutture, e le macchie, come pur tenne Aristotile nel problema 40. della contata sezione. Ma stemperato, e sbarbato che è il succidume, si dà poi l’ultima mano al bucato con l’acqua fredda, e chiara di fiume, o di fonte, che è quella, che imbianca, e che leva la cenere, e’l ranno, e’l sapone, e lava giù le brutture, e le macchie, e tutto ciò che impedisce la candidezza. Il che tanto meglio può fare della marina, quanto ch’ella è bianca, e pura, e la marina cerulea, e livida, onde non può dare se non il color, ch’ella tiene; e questa forse è la più vera ragione di tutte.
Nè qui mi sia opposto, che in significato generale io mi serva della voce Bucato, la quale esprime propriamente parlando una cotal bollitura di cenci, che le donne di villa sogliono fare in un tronco di salcio, o d’altro albero smidollato, e sbucato dal tempo, chiamandolo bucato dal buco di quel tronco; perciochè sendo ella voce Fiorentina generalmente abusata, anch’io m’ho fatto lecito secondare il comune abuso.

PERCHE’ BOLLENDO AL FUOCO L’ACQUA D’UN VASO, IL FONDO SUO NON CUOCA A TOCCARLO

Aristotile nel 6. Problema della particella ventiquattresima accenna la ragione, ma non la spiega; forse per dubbio di non uscire de’ suoi principij. Io torno a ridire quello, che ho detto altrove, che proprio del freddo è di tirare al centro, e proprio del caldo di sollevare in alto. Però quando l’acqua bolle nel vaso, essendo l’acqua fredda di sua natura, l’un contrario rispigne l’altro, e’l caldo si solleva, e’l freddo si concentra, e s’abbassa, ritirandosi al fondo; e quindi è, che’l fondo del vaso non cuoce a toccarlo: imperochè la freddezza dell’acqua riducendosi tutta a quella parte, non lascia, che’l calore vi s’imprima: E per l’istessa cagione vediamo anche, che un vaso di piombo, o di stagno pieno d’acqua messo sul fuoco, non si può liquefare, se l’acqua non si vota: perchè il freddo ritirandosi al fondo impedisce l’azione del fuoco in quella parte. E che la ragione addotta sia vera, manifestasi chiaramente col gittare acqua fredda nel vaso, che bolle: perciochè il calore, ch’era solo nella superficie, rifuggendo da qual contrario, subito si diffonde per tutto, e’l fondo del vaso si fa cocente a toccarlo. Il Settalio ne’ suoi Commenti addusse un’altra ragione poco dissimile dicendo, quod in aqua ebuliente partes, quae actione caloris incalescunt, et attenuantur, superiora naturali propensione petunt. Ma Questo seguiterebbe solamente per un poco, mentre non si desse spazio al fuoco di riscaldare tutte le parti dell’acqua. E nondimeno veggiamo, che questo è un’accidente, che seguita, e dura sempre, mentre che l’acqua bolle.

PERCHE’ NEL CAVARSI L’ACQUA DEL POZZO, LA SECCHIA PESI PIU’ FUORI DELL’ACQUA, CHE DENTRO

Nel mezo dell’acqua del pozzo tanto è piena la secchia, quanto è dopo, che s’è alzata da essa; e nondimeno ella pesa più fuora, contra quello, che par di ragione, essendo l’acqua corpo più denso, e più resistente a gli altri corpi, che vi passano per entro, che non è l’aria. Rispondesi, che ciò viene, perchè l’acqua rotta sempre cerca d’unirsi con impeto, acciochè non si dia il vacuo, e in quell’impeto viene ad aiutare il movimento de’ corpi, che passano per essa, spignendoli verso quella parte, dove li sente inclinati purchè non vadano contra il moto di lei, come le navi, che si tirano contra il corso del fiume. Quindi è dunque, che movendosi la secchia all’insù tirata dalla fune, l’acqua rotta, che cerca d’unirsi, perchè non si dia vacuo tra la secchia, e lei, la spigne, e la solleva con impeto, e fa parere, che agevolmente, e quasi da se stessa ella si muova dietro alla fune; e tanto più, che allora l’acqua non si muove dell’acqua: ma scostata che è la secchia dall’acqua del pozzo, l’acqua entra nell’aria contra la sua natura; onde si muove con ripugnanza maggiore.

PERCHE’ NELLE CIME DE’ MONTI SI TROVINO CONCHIGLIE

Non solamente sovra il lido del mare, e su gli scogli, dove sono rigittate dall’onde, ma nelle cime de’ monti ancora si ritrovano conchiglie. Il Cardano nel secondo degli Elementi disse, Quod scopuli ex insulis exesa terra a fluctibus oriuntur: ac iidem accedente terra, aut intumescente in insulas evadunt. Et ob id plereque insulae montibus abundant, quod si mare siccetur, scopuli montes fiunt. Unde nil mirum in montibus iuxta mare, inveniri navium partes, et ostrea, atque conchylia. Quid enim hoc aliud est, quam montes illos olim fuisse maris scopulos: aut aliquando innudationem aliquam gravem praecessisse.
E questa del Cardano è opinione di molti i quali ritrovando conchiglie in terra ferma su per le cime de’ monti, credono, o che ivi una volta sia stato mare, o che una qualche inondazione ve l’habbia portate, come si può vedere da tutto quello, che scrive Strabone nel primo libro, e per ultimo rifugio ricorrono a i tempi del general diluvio. Ma oltre che da i tempi del diluvio fino a questi nostri conservarsi in terra conchiglie del mare incorrotte non ha del verisimile, nè parimente è probabile, che dopo sia venuta altra inondazione di sorte, che habbia coperti i monti altissimi lontani dal mare cento, e dugento miglia, una ragione invincibile mostra, che l’uno, e l’altro sia favola; la qual è, che non solamente ne gli altissimi monti lontani  dal mare si trovano conchiglie sparse per lo terreno, ma inserrate, e petrificate ne’ sassi, e ne’ tufi de’ medesimi monti. Però io sono andato credendo, che le conchiglie vive, e perfette nel genere loro, non possano veramente nascere, nè mantenersi in altra parte, che in mare, o negli stagni d’acqua salsa; generandosi la carne loro di quella grassa viscosità dell’acqua marina, di che vogliono i naturali, che si generino parimente l’anguille. Ma il guscio, e il nicchio loro, tengo io, che possa generarsi per tutto, ove sieno arrene atte a congiongersi insieme per l’umido. E questo mio pensiero è secondato dall’autorità d’Aristotile nel quindicesimo del quinto dell’Istoria de gli Animali (testo veridico) ove egli dice; Quod conchae, Camae, ungues et Pectines, locis arenosis ortus sui initia capiunt. E più oltre. In limo sponte gignuntur omnia testacea, pro eius varietate diversa; In coenoso quidem ostrea, in arenoso conchae, et alia, quae memoravimus: in rimis, et fissuris, saxorum tethea, et glandes, et quae affiguntur extimae superficiei scopulorum, ut lepades, et neritae, etc. Luogo citato parimente da Ateneo nel 3.
Quindi adunque avviene, che la natura havendo in mare l’arrene, e l’umido, di che si genera il nicchio, e la viscosità del mare, di che si genera la carne, ivi fa le conchiglie vive, e perfette. Ma ne’ monti, e ne gli altri luoghi arrenosi, dove non ha la materia da generar la carne, genera solamente i gusci, ed i nicchi, che latinamente possono chiamarsi naturae inchoationes: perchè manca la sufficienza della materia da poterle finire. Nè paia strano, che si trovino eziandio nicchi riserrati ne’ tufi, e ne’ sassi; perciochè quelle arrene, che produssero i nicchi delle conchiglie, le medesime generarono anche i sassi, e i tufi; e le unirono con esso loro: che se umido sufficiente vi si trovasse, elle potrebbono ancora ritrovarvisi vive, come altri animali alle volte vi si ritrovano; e non sono ancor molti giorni, che nel Tenitorio di Tivoli, cavandosi marmi per la fabbrica di San Pietro, nel mezo di due gran sassi congiunti, e serrati insieme fu ritrovato una buca, e dentrovi un granchio terrestre di quattro libre di peso, che da quei lavoratori fu cotto, e mangiato.