COLTIVAZIONI IDROPONICHE
COLTIVAZIONI IDROPONICHE
l’agricoltura del futuro
I demografi prevedono che nell’anno 2050 la popolazione avrà raggiunto i 9,5 miliardi. E molti pensano che, se livello di vita dei paesi poveri dovesse allinearsi agli standard consumistici di quelli ricchi, la Terra non sarebbe più in grado di soddisfare il fabbisogno alimentare. Molti ambientalisti dicono che è già stata superata la capacità del nostro pianeta e che bisogna diminuire i consumi dei paesi ricchi fino al livello di quelli più poveri.
Ma non è questa la soluzione. La vera soluzione è aumentare la produttività, e con le coltivazioni idroponiche essa potrebbe aumentare in maniera straordinaria. Non c’è quasi limite agli aumenti che si potrebbero ottenere con queste coltivazioni al chiuso, ancora non molto diffuse ma praticate da decine di anni.
Le coltivazioni fuori suolo
L’agricoltura fuori suolo in serre chiuse è costituita dalle coltivazioni idroponiche, aeroponiche, e goccia a goccia. Nella coltivazione goccia a goccia le piante vengono coltivate in contenitori di materiali inerti e leggeri come la vermiculite, un substrato che può essere riutilizzato per anni, e sono irrigate tramite un sistema goccia a goccia con acqua arricchita di sali minerali. Nelle coltivazioni aeroponiche le piante sono sospese in un’atmosfera satura di vapore acqueo e nutrienti, e nelle coltivazioni idroponiche le piante hanno le radici in contenitori con acqua e fertilizzanti.
Queste tecniche di coltivazione richiedono il completo controllo di tutte le condizioni fisiche e ambientali in cui vivono le piante e dei fattori che ne influenzano la crescita. La velocità di crescita dipende da molti fattori: temperatura dell’aria e delle radici, intensità della radiazione luminosa, disponibilità di acqua e nutrienti, tasso di anidride carbonica, pH del terreno, resistenza ai parassiti ecc. Molte piante in eccesso di luce disfano i primi prodotti della fotosintesi fabbricati da altri fotoni. Quindi non sono in grado di sfruttare una luce molto forte (ma la limitazione è dovuta alla insufficiente disponibilità di anidride carbonica). Altre invece, come la canapa, il mais, il sorgo e numerose piante tropicali, hanno un’alta efficienza fotosintetica, e riescono a sfruttare anche una luce molto intensa. Scegliere le piante giuste e nelle giuste combinazioni, e ricostruire artificialmente le condizioni ottimali per la crescita, non è compito facile. E’ necessario anche risolvere problemi tecnici e organizzativi complessi. E poi bisogna scongiurare il rischio che errori o incidenti, come l’interruzione della corrente elettrica, portino alla perdita dell’intero raccolto. Ma il vantaggio delle coltivazioni indoor è che ci si può svincolare dalle costrizioni ambientali che condizionano e limitano la produzione, e che si possono evitare gli eventi meteorologici dannosi: tempeste, gelate, allagamenti, siccità, parassiti ecc. C’è anche il vantaggio che si può coltivare un numero maggiore di piante per unità di superficie, e cumulare i diversi fattori che favoriscono la crescita, fino a moltiplicare la produttività per ettaro da qualche decina fino a centinaia di volte. Infine si potrebbero realizzare anche molte importanti sinergie, allo scopo di ridurre il consumo di energia, acqua, fertilizzanti e antiparassitari. Ma il vantaggio principale rimane il risparmio di prezioso terreno agricolo, che potrebbe essere destinato ad altri usi più sostenibili, o restituito alla natura.
Lo stato dell’arte e le prospettive future
Per quanto riguarda il livello di sviluppo delle tecniche di coltivazioni fuori suolo, si potrebbe dire che siamo appena agli inizi, e questo nonostante che le coltivazioni idroponiche siano già praticate da decine di anni per la coltivazione di fiori e ortaggi. I costi iniziali di impianto sono alti, i problemi gestionali complessi, e le varietà di specie coltivate fuori suolo ancora limitate. Ma quando si trova la giusta combinazione di piante e di soluzioni organizzative e logistiche, queste coltivazioni sono già oggi competitive. Lo dimostra la Eurofresh Farms, http://www.eurofresh.com
un’azienda che da oltre dieci anni coltiva idroponicamente diverse varietà di pomodori, cetrioli e peperoni su una superficie di 130 ettari nel deserto dell’Arizona. E che ha anche ottenuto per dieci anni consecutivi un riconoscimento per avere prodotto i più saporiti pomodori d’America.
Le piante sono coltivate in file ravvicinate e su due livelli. Poiché le radici non hanno bisogno di espandersi nel terreno, se ne possono mettere il doppio per unità di superficie, cioè per ogni livello. Le piante inoltre crescono più velocemente, perché non devono “perdere tempo” a radicarsi nel terreno, e nel corso dei 12 mesi si possono fare quattro raccolti. In definitiva la produttività per ettaro è almeno 15 volte più alta, e 130 ettari di deserto hanno potuto sostituire una ventina di chilometri quadrati di fertile terreno agricolo. L’azienda ha potuto quindi risparmiare nell’acquisto del terreno, con anche il vantaggio di avere luce e calore sufficienti per protrarre la coltivazione a tutti i 12 mesi dell’anno. Ma i vantaggi, che vanno ben oltre la pura convenienza economica, non si fermano qui. In questo genere di coltivazioni c’è anche un gran risparmio di acqua, fertilizzanti e antiparassitari. Mentre nelle coltivazioni in campo aperto le piante utilizzano solo una minima parte dell’acqua e solo una percentuale minore dei fertilizzanti sparsi nel terreno, nelle coltivazioni indoor questi sprechi non ci sono più, perché servono solo l’acqua e i fertilizzanti effettivamente assorbiti dalle piante. Ed è grazie al risparmio di acqua che questa coltivazione può essere fatta in pieno deserto. Inoltre si può fare del tutto a meno degli antiparassitari, perché non ci sono più i parassiti che provengono dal terreno o dall’ambiente circostante.
A dimostrazione del grande interesse per le coltivazioni idroponiche, un altro grosso impianto, di 91 ettari, è in corso di realizzazione in Gran Bretagna per la produzione di diverse varietà di ortaggi.
Ma le combinazioni di piante coltivabili fuori suolo sono al momento ancora relativamente limitate. Sono tantissime le piante che vengono coltivate in campo aperto, da orto, da frutta e da cereali, che in teoria potrebbero essere coltivate idroponicamente o col sistema goccia a goccia, e che potrebbero essere studiate a questo scopo. E oltre a tutte le varietà attualmente coltivate, ce ne sono altrettante che non vengono seminate o messe a dimora perché non commercialmente interessanti, ma che pure potrebbero dimostrarsi adatte a questa nuova tecnica di coltivazione. Trovarne delle altre, però, è solo questione di ricerca e sperimentazione. Col tempo le combinazioni interessanti aumenteranno, così come la conoscenza delle condizioni di vita dei vegetali e le esperienze di coltivazioni in ambiente chiuso. Non solo si potrà coltivare una varietà di piante sempre più grande, ma aumenterà anche la produttività per ettaro.
Cumulare i fattori di crescita: l’illuminazione artificiale
Partendo da dove siamo arrivati oggi, anche la produttività di un’azienda come Eurofresh Farms – la più grande degli Stati Uniti in questo settore – potrebbe ancora almeno raddoppiare. Infatti, se si aggiungesse al sistema un impianto per l’illuminazione notturna, la crescita vegetativa potrebbe proseguire per tutte le 24 ore. Il bilancio nelle 24 ore è dato dalla crescita nelle ore di luce, grazie alla creazione di nuova massa vegetale tramite la fotosintesi, meno la decrescita delle ore notturne. Di notte o al buio la fotosintesi si interrompe, ma le piante sono esseri viventi che hanno un loro metabolismo che consuma energia con la traspirazione, e quando non c’è fotosintesi, la massa vegetale si riduce. D’inverno, quando le ore di luce sono molte di meno di quelle notturne, complice anche la bassa temperatura che rallenta la crescita, la decrescita supera la crescita. Per questo molte piante hanno adottato la strategia di privarsi in inverno delle foglie, perché questo riduce quasi a zero le attività metaboliche e quindi la perdita di massa vegetale. Alle alte latitudini, man mano che ci si avvicina al circolo polare, le giornate estive si allungano mentre quelle invernali si accorciano, fino ad arrivare, al di là del circolo polare, al giorno di 24 ore, oppure al giorno e alla notte di sei mesi. Poiché in estate oltre il circolo polare c’è una crescita continua e non c’è decrescita, anche se le altre condizioni ambientali sono meno favorevoli, sia negli ecosistemi marini che terrestri c’è una ricchezza di vita paragonabile a quella delle regioni tropicali.
Lo stesso risultato si potrebbe ottenere nelle coltivazioni indoor con l’illuminazione artificiale nelle ore notturne, cioè si potrebbe prolungare la crescita vegetativa a tutte le 24 ore, e ottenere più che un raddoppio della produzione. Certo, introdurre un elemento in più significa anche aggiungere una complicazione in più: non tutte le piante sono adatte. Per esempio ci sono piante sensibili al fotoperiodo. Alcune, se la lunghezza delle ore di luce giorno per giorno non è quella giusta, non fioriscono. Bisogna quindi studiare, provare e sperimentare finché non si troveranno le piante più adatte e la migliore combinazione dal punto di vista della produttività, delle esigenze del mercato, nonché dal punto di vista organizzativo e gestionale. Ma nel momento in cui si arriva ad una formula soddisfacente, si potrà ancora più che raddoppiare un livello produttivo già elevatissimo.
Qualcuno però potrebbe obiettare che la qualità dei prodotti ottenuti con il “sole artificiale” non potrà mai essere la stessa delle coltivazione in campo aperto. In realtà quello che conta è che la luce abbia le giuste frequenze luminose, che provengano dal Sole o da una lampadina. Identico discorso per i sali minerali: per le piante non fa nessuna differenza se i fertilizzanti provengono dal terreno o da una fabbrica chimica. Anche qui quello che conta è che ci siano tutti i sali minerali di cui la pianta ha bisogno. Del resto anche l’agricoltura tradizionale è altamente artificiale e si contrappone per questo agli ecosistemi naturali. Così come sono poco naturali gli animali di allevamento rispetto a quelli selvatici. Ma la qualità non è necessariamente peggiore, e può essere invece per molti aspetti migliore: migliore per la selezione delle razze, migliore dal punto di vista sanitario, nutrizionale ecc., oltre che per la produttività. E così come è preferibile mangiare pesce d’allevamento per alleggerire la pressione della pesca sui mari, scegliere questa agricoltura significa alleggerire la pressione esercitata sul territorio.
A questo punto l’impianto, con una produttività aumentata di una quarantina di volte e del tutto indipendente dalle condizioni atmosferiche, compresa la luce naturale e la temperatura, potrebbe essere localizzato in prossimità di un centro abitato, per esempio in una delle tante zone industriali abbandonate. In questo modo si potrebbero realizzare numerose importanti sinergie per aumentare ancora di più la convenienza di queste coltivazioni.
Sfruttare le sinergie
Innanzi tutto diminuiscono i tempi e i costi, sia economici che energetici, del trasporto delle derrate agricole. Con tempi più ridotti diminuirebbero le perdite di prodotto, e gli ortaggi arriverebbero più freschi ai punti di vendita. Diminuirebbe anche il numero dei passaggi dell’intermediazione commerciale. Attualmente la quota del prezzo finale che va al produttore è minima; tutto il resto rappresenta il costo dell’intermediazione. Se la produzione avviene vicino ai luoghi di consumo, questo costo potrebbe diminuire, con effetti positivi sia sul prezzo pagato dal consumatore, sia sulla remunerazione che va al produttore. Un’altra importante sinergia riguarda i fertilizzanti. Le cosiddette “acque grigie”, risultato della depurazione degli scarichi fognari, vengono riversate nei corsi d’acqua e poi nel mare, dove possono provocare fenomeni di eutrofizzazione. Un impianto costruito ai margini della città potrebbe usare più facilmente le acque grigie, riducendo a zero il consumo di fertilizzanti e diminuendo questa forma di inquinamento. In prospettiva tutte le acque grigie potrebbero essere usate come fertilizzante, cosa che consentirebbe il riciclo di una componente fondamentale dei rifiuti urbani.
Inoltre diventerebbe possibile usare le acque di raffreddamento di una centrale elettrica, ancora molto calde, per portare la temperatura degli ambienti indoor al livello ottimale, senza bisogno di costruire l’impianto nel deserto e senza ulteriori costi energetici. Per un impianto ubicato in zona urbana, diventerebbe anche molto più semplice, e quindi fattibile, conferire gli scarti vegetali ad un inceneritore, o fra qualche anno ad un impianto per la trasformazione in biocombustibile, allo scopo di produrre una parte dell’energia che viene consumata.
L’anidride carbonica: il principale fattore di crescita
Un’altra importante sinergia, che questa volta serve ad aumentare ancora di più la produttività, riguarda la possibilità di utilizzare una parte degli scarichi di una centrale a turbogas per arricchire di anidride carbonica l’ambiente della sera. I fumi di una centrale a gas sono già molto puliti ma, se fosse necessario, quelli destinati alle serre potrebbero essere ulteriormente depurati. L’anidride carbonica, oggi accusata di essere un pericoloso inquinante, in realtà è il principale fattore di crescita delle piante. Nelle ere geologiche passate il tasso di anidride carbonica dell’atmosfera è stato quasi sempre più alto di quello che conosciamo oggi, anche di molte volte. Per esempio nell’era Carbonifera il livello era forse 5 o 6 volte l’attuale. L’alto tasso di anidride carbonica, unito ad un’abbondante umidità e a una temperatura media più alta di alcuni gradi, dava vita ad una vegetazione arborea particolarmente esuberante, che ci ha lasciato in eredità ricchi depositi di carbon fossile. Negli ambienti chiusi si può aumentare artificialmente il livello dell’anidride carbonica, cosa che del resto è già pratica corrente nelle coltivazioni in serra. Bisogna anche ricordare che la crescita delle piante “consuma” anidride carbonica, che è necessario rimpiazzare per non dover assistere ad un calo della produzione.
La velocità di crescita delle piante aumenta al crescere del livello dell’anidride carbonica fino a 10.000 parti per milione, l’1% dei gas atmosferici, oltre 25 volte il livello attuale, ma nelle serre non si va oltre le 1.000 / 1.500 ppm, perché a livelli più alti l’aria comincia a creare problemi alla respirazione. Già così però si ottengono considerevoli incrementi di produttività. Ma se durante la coltivazione e fino al raccolto non fosse necessaria la presenza di operatori umani, il tasso di anidride carbonica potrebbe essere portato a livelli molto più alti, cosa che moltiplicherebbe la velocità di crescita di parecchie volte. Per ogni 100 ppm in più, la velocità di crescita aumenta del 10%. Ma la crescita degli organi dove si accumulano i prodotti della fotosintesi (radici, tuberi, semi, frutti ecc.) di solito è ancora più veloce. C’è addirittura c’è chi propone di realizzare coltivazioni idroponiche in edifici di trenta piani, cosa che moltiplicherebbe la produttività per ettaro di altre trenta volte! (vedi l’articolo “L’ascesa dell’agricoltura verticale” pubblicato da Le Scienze nel numero di gennaio 2010). Quindi in definitiva, se si potessero cumulare tutti i fattori che aumentano la produttività, compresa l’illuminazione artificiale e un alto livello di anidride carbonica, ed effettuare la coltivazione su molti piani, si potrebbe arrivare, almeno in teoria, a moltiplicare la produttività per ettaro anche di migliaia di volte.
Un uso più sostenibile del territorio
Ad ogni modo, almeno per il momento, questo non è necessario. Sarebbe sufficiente adottare i fattori incrementali di volta in volta più convenienti per arrivare ad aumenti medi della resa per ettaro “anche solo” di qualche decina di volte, e localizzare queste coltivazioni vicino alle città in modo da sfruttare tutte le possibili sinergie. Altrettanto importante è aumentare la varietà delle piante coltivabili fuori suolo. Già solo così le superfici attualmente impegnate da coltivazioni si potrebbero ridurre a poca cosa. Del resto in Europa la crescita della produttività agricola e dei redditi avvenuta nel dopoguerra ha reso non più conveniente lo sfruttamento di molti terreni marginali, con conseguente aumento dal 50% al 100% della superficie dei boschi. Anche in Italia i boschi sono raddoppiati, e oggi la percentuale del suolo nazionale non sfruttato dalle attività umane è del 55 / 60 %. Ma con le coltivazioni indoor nel giro di qualche decennio si potrebbe arrivare all’85 / 90 %. Sarà necessario imparare a coltivare in ambienti chiusi ogni varietà di fiori e ortaggi, gran parte delle piante da frutto, e persino i cereali. Per esempio il pesco sopporta di essere coltivato in luce artificiale continuativamente per tutte le 24 ore, e sarebbe in grado di produrre i suoi frutti tutto l’anno. La sua coltivazione potrebbe essere abbinata a qualche altra pianta da frutto di piccola taglia o arbustiva (o a qualche pianta da orto). Se venisse coltivato in serra vicino alle città il frutto, facilmente deperibile, potrebbe essere raccolto quando è maturo, non quando è ancora per metà acerbo, come si fa quasi sempre per evitare che vada a male.
In ogni caso quello che serve è tanta ricerca e sperimentazione, allo scopo di individuare le piante e le combinazioni di piante adatte, e per organizzare sempre meglio i cicli di produzione. Se a qualcuno interessa alleggerire l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente, la prima cosa da fare è investire nella ricerca.
L’interesse per le coltivazioni idroponiche è già oggi molto grande, e tra qualche decina d’anni l’agricoltura fuori suolo potrebbe aver sostituito gran parte delle colture tradizionali. Ma cosa ne sarà dei terreni agricoli “liberati”? Una parte potrebbe essere destinata all’ampliamento delle riserve naturalistiche già esistenti. Nelle zone di pianura i parchi naturali sono sempre di estensione limitata. Essi potrebbero gradualmente estendere i propri confini man mano che nuovi terreni verranno lasciati liberi dalle coltivazioni. Ma la maggior parte degli attuali terreni coltivati potrebbe essere destinata ad una agricoltura più verde e sostenibile. Per esempio potrebbero essere piantati alberi di noce, che garantirebbero un reddito immediato con il raccolto autunnale, e un reddito a lunga scadenza sotto forma di pregiato legname da falegnameria. A terra potrebbero essere allevati in stato di semi libertà animali come il cinghiale, il daino, il bufalo ecc. La campagna si riempirebbe di boschi, diventerebbe più verde, più bella, e forse anche più remunerativa. Nello stesso tempo l’economia renderebbe disponibili prodotti alimentari considerati di migliore qualità. Discorso che può valere anche per le noci.
Un’alimentazione migliore
Attualmente la base della nostra alimentazione è costituita dai cereali. Ma come alimento base le noci arrostite sarebbero migliori. In fin dei conti è solo da 10.000 anni o poco più che viene praticata l’agricoltura e che i cereali fanno parte della nostra dieta. E’ a causa di questo fatto, e di un adattamento fisiologico ancora incompleto, che molti manifestano intolleranza al glutine e devono evitare i prodotti a base di cereali. Le noci, e le noci arrostite, invece, fanno parte dell’alimentazione umana da tempi molto più antichi, che si misurano in centinaia di migliaia o milioni di anni. Che le noci siano un alimento molto antico, lo dimostra il fatto che le possiamo mangiare crude (e le possiamo mangiare crude perché le abbiamo incluse nella nostra dieta molto tempo prima che fosse scoperto l’uso alimentare del fuoco). Ciò significa che verso di esse abbiamo un adattamento molto più profondo, e pertanto ci dobbiamo aspettare non solo meno inconvenienti, ma anche dei veri e propri benefici per la salute. Probabilmente abbandonare i cereali per le noci arrostite migliorerebbe le prestazioni fisiche e lo stato di salute generale, e questa dieta quindi potrebbe essere adottata non solo dai celiaci che non tollerano il glutine, ma anche dagli atleti e da chiunque desideri migliorare la propria fitness.
Se si potesse guardare nel futuro come cercano di fare i migliori racconti di fantascienza, probabilmente vedremmo tra qualche decina d’anni non un ambiente devastato, ma una natura più rigogliosa e una campagna sempre più verde, insieme a una più alta qualità della vita. Del resto l’aumento della produttività agricola che c’è stato nel dopoguerra ha già reso più abbondante e ricca la nostra dieta, e ha liberato molti terreni una volta impiegati da un’agricoltura di sussistenza che oggi sono stati riconquistati dal bosco. Ma questa volta la diffusione delle coltivazioni idroponiche farà sì che vengano lasciati liberi i migliori terreni di pianura.
l’agricoltura del futuro
I demografi prevedono che nell’anno 2050 la popolazione avrà raggiunto i 9,5 miliardi. E molti pensano che, se livello di vita dei paesi poveri dovesse allinearsi agli standard consumistici di quelli ricchi, la Terra non sarebbe più in grado di soddisfare il fabbisogno alimentare. Molti ambientalisti dicono che è già stata superata la capacità del nostro pianeta e che bisogna diminuire i consumi dei paesi ricchi fino al livello di quelli più poveri.
Ma non è questa la soluzione. La vera soluzione è aumentare la produttività, e con le coltivazioni idroponiche essa potrebbe aumentare in maniera straordinaria. Non c’è quasi limite agli aumenti che si potrebbero ottenere con queste coltivazioni al chiuso, ancora non molto diffuse ma praticate da decine di anni.
Le coltivazioni fuori suolo
L’agricoltura fuori suolo in serre chiuse è costituita dalle coltivazioni idroponiche, aeroponiche, e goccia a goccia. Nella coltivazione goccia a goccia le piante vengono coltivate in contenitori di materiali inerti e leggeri come la vermiculite, un substrato che può essere riutilizzato per anni, e sono irrigate tramite un sistema goccia a goccia con acqua arricchita di sali minerali. Nelle coltivazioni aeroponiche le piante sono sospese in un’atmosfera satura di vapore acqueo e nutrienti, e nelle coltivazioni idroponiche le piante hanno le radici in contenitori con acqua e fertilizzanti.
Queste tecniche di coltivazione richiedono il completo controllo di tutte le condizioni fisiche e ambientali in cui vivono le piante e dei fattori che ne influenzano la crescita. La velocità di crescita dipende da molti fattori: temperatura dell’aria e delle radici, intensità della radiazione luminosa, disponibilità di acqua e nutrienti, tasso di anidride carbonica, pH del terreno, resistenza ai parassiti ecc. Molte piante in eccesso di luce disfano i primi prodotti della fotosintesi fabbricati da altri fotoni. Quindi non sono in grado di sfruttare una luce molto forte (ma la limitazione è dovuta alla insufficiente disponibilità di anidride carbonica). Altre invece, come la canapa, il mais, il sorgo e numerose piante tropicali, hanno un’alta efficienza fotosintetica, e riescono a sfruttare anche una luce molto intensa. Scegliere le piante giuste e nelle giuste combinazioni, e ricostruire artificialmente le condizioni ottimali per la crescita, non è compito facile. E’ necessario anche risolvere problemi tecnici e organizzativi complessi. E poi bisogna scongiurare il rischio che errori o incidenti, come l’interruzione della corrente elettrica, portino alla perdita dell’intero raccolto. Ma il vantaggio delle coltivazioni indoor è che ci si può svincolare dalle costrizioni ambientali che condizionano e limitano la produzione, e che si possono evitare gli eventi meteorologici dannosi: tempeste, gelate, allagamenti, siccità, parassiti ecc. C’è anche il vantaggio che si può coltivare un numero maggiore di piante per unità di superficie, e cumulare i diversi fattori che favoriscono la crescita, fino a moltiplicare la produttività per ettaro da qualche decina fino a centinaia di volte. Infine si potrebbero realizzare anche molte importanti sinergie, allo scopo di ridurre il consumo di energia, acqua, fertilizzanti e antiparassitari. Ma il vantaggio principale rimane il risparmio di prezioso terreno agricolo, che potrebbe essere destinato ad altri usi più sostenibili, o restituito alla natura.
Lo stato dell’arte e le prospettive future
Per quanto riguarda il livello di sviluppo delle tecniche di coltivazioni fuori suolo, si potrebbe dire che siamo appena agli inizi, e questo nonostante che le coltivazioni idroponiche siano già praticate da decine di anni per la coltivazione di fiori e ortaggi. I costi iniziali di impianto sono alti, i problemi gestionali complessi, e le varietà di specie coltivate fuori suolo ancora limitate. Ma quando si trova la giusta combinazione di piante e di soluzioni organizzative e logistiche, queste coltivazioni sono già oggi competitive. Lo dimostra la Eurofresh Farms, http://www.eurofresh.com
un’azienda che da oltre dieci anni coltiva idroponicamente diverse varietà di pomodori, cetrioli e peperoni su una superficie di 130 ettari nel deserto dell’Arizona. E che ha anche ottenuto per dieci anni consecutivi un riconoscimento per avere prodotto i più saporiti pomodori d’America.
Le piante sono coltivate in file ravvicinate e su due livelli. Poiché le radici non hanno bisogno di espandersi nel terreno, se ne possono mettere il doppio per unità di superficie, cioè per ogni livello. Le piante inoltre crescono più velocemente, perché non devono “perdere tempo” a radicarsi nel terreno, e nel corso dei 12 mesi si possono fare quattro raccolti. In definitiva la produttività per ettaro è almeno 15 volte più alta, e 130 ettari di deserto hanno potuto sostituire una ventina di chilometri quadrati di fertile terreno agricolo. L’azienda ha potuto quindi risparmiare nell’acquisto del terreno, con anche il vantaggio di avere luce e calore sufficienti per protrarre la coltivazione a tutti i 12 mesi dell’anno. Ma i vantaggi, che vanno ben oltre la pura convenienza economica, non si fermano qui. In questo genere di coltivazioni c’è anche un gran risparmio di acqua, fertilizzanti e antiparassitari. Mentre nelle coltivazioni in campo aperto le piante utilizzano solo una minima parte dell’acqua e solo una percentuale minore dei fertilizzanti sparsi nel terreno, nelle coltivazioni indoor questi sprechi non ci sono più, perché servono solo l’acqua e i fertilizzanti effettivamente assorbiti dalle piante. Ed è grazie al risparmio di acqua che questa coltivazione può essere fatta in pieno deserto. Inoltre si può fare del tutto a meno degli antiparassitari, perché non ci sono più i parassiti che provengono dal terreno o dall’ambiente circostante.
A dimostrazione del grande interesse per le coltivazioni idroponiche, un altro grosso impianto, di 91 ettari, è in corso di realizzazione in Gran Bretagna per la produzione di diverse varietà di ortaggi.
Ma le combinazioni di piante coltivabili fuori suolo sono al momento ancora relativamente limitate. Sono tantissime le piante che vengono coltivate in campo aperto, da orto, da frutta e da cereali, che in teoria potrebbero essere coltivate idroponicamente o col sistema goccia a goccia, e che potrebbero essere studiate a questo scopo. E oltre a tutte le varietà attualmente coltivate, ce ne sono altrettante che non vengono seminate o messe a dimora perché non commercialmente interessanti, ma che pure potrebbero dimostrarsi adatte a questa nuova tecnica di coltivazione. Trovarne delle altre, però, è solo questione di ricerca e sperimentazione. Col tempo le combinazioni interessanti aumenteranno, così come la conoscenza delle condizioni di vita dei vegetali e le esperienze di coltivazioni in ambiente chiuso. Non solo si potrà coltivare una varietà di piante sempre più grande, ma aumenterà anche la produttività per ettaro.
Cumulare i fattori di crescita: l’illuminazione artificiale
Partendo da dove siamo arrivati oggi, anche la produttività di un’azienda come Eurofresh Farms – la più grande degli Stati Uniti in questo settore – potrebbe ancora almeno raddoppiare. Infatti, se si aggiungesse al sistema un impianto per l’illuminazione notturna, la crescita vegetativa potrebbe proseguire per tutte le 24 ore. Il bilancio nelle 24 ore è dato dalla crescita nelle ore di luce, grazie alla creazione di nuova massa vegetale tramite la fotosintesi, meno la decrescita delle ore notturne. Di notte o al buio la fotosintesi si interrompe, ma le piante sono esseri viventi che hanno un loro metabolismo che consuma energia con la traspirazione, e quando non c’è fotosintesi, la massa vegetale si riduce. D’inverno, quando le ore di luce sono molte di meno di quelle notturne, complice anche la bassa temperatura che rallenta la crescita, la decrescita supera la crescita. Per questo molte piante hanno adottato la strategia di privarsi in inverno delle foglie, perché questo riduce quasi a zero le attività metaboliche e quindi la perdita di massa vegetale. Alle alte latitudini, man mano che ci si avvicina al circolo polare, le giornate estive si allungano mentre quelle invernali si accorciano, fino ad arrivare, al di là del circolo polare, al giorno di 24 ore, oppure al giorno e alla notte di sei mesi. Poiché in estate oltre il circolo polare c’è una crescita continua e non c’è decrescita, anche se le altre condizioni ambientali sono meno favorevoli, sia negli ecosistemi marini che terrestri c’è una ricchezza di vita paragonabile a quella delle regioni tropicali.
Lo stesso risultato si potrebbe ottenere nelle coltivazioni indoor con l’illuminazione artificiale nelle ore notturne, cioè si potrebbe prolungare la crescita vegetativa a tutte le 24 ore, e ottenere più che un raddoppio della produzione. Certo, introdurre un elemento in più significa anche aggiungere una complicazione in più: non tutte le piante sono adatte. Per esempio ci sono piante sensibili al fotoperiodo. Alcune, se la lunghezza delle ore di luce giorno per giorno non è quella giusta, non fioriscono. Bisogna quindi studiare, provare e sperimentare finché non si troveranno le piante più adatte e la migliore combinazione dal punto di vista della produttività, delle esigenze del mercato, nonché dal punto di vista organizzativo e gestionale. Ma nel momento in cui si arriva ad una formula soddisfacente, si potrà ancora più che raddoppiare un livello produttivo già elevatissimo.
Qualcuno però potrebbe obiettare che la qualità dei prodotti ottenuti con il “sole artificiale” non potrà mai essere la stessa delle coltivazione in campo aperto. In realtà quello che conta è che la luce abbia le giuste frequenze luminose, che provengano dal Sole o da una lampadina. Identico discorso per i sali minerali: per le piante non fa nessuna differenza se i fertilizzanti provengono dal terreno o da una fabbrica chimica. Anche qui quello che conta è che ci siano tutti i sali minerali di cui la pianta ha bisogno. Del resto anche l’agricoltura tradizionale è altamente artificiale e si contrappone per questo agli ecosistemi naturali. Così come sono poco naturali gli animali di allevamento rispetto a quelli selvatici. Ma la qualità non è necessariamente peggiore, e può essere invece per molti aspetti migliore: migliore per la selezione delle razze, migliore dal punto di vista sanitario, nutrizionale ecc., oltre che per la produttività. E così come è preferibile mangiare pesce d’allevamento per alleggerire la pressione della pesca sui mari, scegliere questa agricoltura significa alleggerire la pressione esercitata sul territorio.
A questo punto l’impianto, con una produttività aumentata di una quarantina di volte e del tutto indipendente dalle condizioni atmosferiche, compresa la luce naturale e la temperatura, potrebbe essere localizzato in prossimità di un centro abitato, per esempio in una delle tante zone industriali abbandonate. In questo modo si potrebbero realizzare numerose importanti sinergie per aumentare ancora di più la convenienza di queste coltivazioni.
Sfruttare le sinergie
Innanzi tutto diminuiscono i tempi e i costi, sia economici che energetici, del trasporto delle derrate agricole. Con tempi più ridotti diminuirebbero le perdite di prodotto, e gli ortaggi arriverebbero più freschi ai punti di vendita. Diminuirebbe anche il numero dei passaggi dell’intermediazione commerciale. Attualmente la quota del prezzo finale che va al produttore è minima; tutto il resto rappresenta il costo dell’intermediazione. Se la produzione avviene vicino ai luoghi di consumo, questo costo potrebbe diminuire, con effetti positivi sia sul prezzo pagato dal consumatore, sia sulla remunerazione che va al produttore. Un’altra importante sinergia riguarda i fertilizzanti. Le cosiddette “acque grigie”, risultato della depurazione degli scarichi fognari, vengono riversate nei corsi d’acqua e poi nel mare, dove possono provocare fenomeni di eutrofizzazione. Un impianto costruito ai margini della città potrebbe usare più facilmente le acque grigie, riducendo a zero il consumo di fertilizzanti e diminuendo questa forma di inquinamento. In prospettiva tutte le acque grigie potrebbero essere usate come fertilizzante, cosa che consentirebbe il riciclo di una componente fondamentale dei rifiuti urbani.
Inoltre diventerebbe possibile usare le acque di raffreddamento di una centrale elettrica, ancora molto calde, per portare la temperatura degli ambienti indoor al livello ottimale, senza bisogno di costruire l’impianto nel deserto e senza ulteriori costi energetici. Per un impianto ubicato in zona urbana, diventerebbe anche molto più semplice, e quindi fattibile, conferire gli scarti vegetali ad un inceneritore, o fra qualche anno ad un impianto per la trasformazione in biocombustibile, allo scopo di produrre una parte dell’energia che viene consumata.
L’anidride carbonica: il principale fattore di crescita
Un’altra importante sinergia, che questa volta serve ad aumentare ancora di più la produttività, riguarda la possibilità di utilizzare una parte degli scarichi di una centrale a turbogas per arricchire di anidride carbonica l’ambiente della sera. I fumi di una centrale a gas sono già molto puliti ma, se fosse necessario, quelli destinati alle serre potrebbero essere ulteriormente depurati. L’anidride carbonica, oggi accusata di essere un pericoloso inquinante, in realtà è il principale fattore di crescita delle piante. Nelle ere geologiche passate il tasso di anidride carbonica dell’atmosfera è stato quasi sempre più alto di quello che conosciamo oggi, anche di molte volte. Per esempio nell’era Carbonifera il livello era forse 5 o 6 volte l’attuale. L’alto tasso di anidride carbonica, unito ad un’abbondante umidità e a una temperatura media più alta di alcuni gradi, dava vita ad una vegetazione arborea particolarmente esuberante, che ci ha lasciato in eredità ricchi depositi di carbon fossile. Negli ambienti chiusi si può aumentare artificialmente il livello dell’anidride carbonica, cosa che del resto è già pratica corrente nelle coltivazioni in serra. Bisogna anche ricordare che la crescita delle piante “consuma” anidride carbonica, che è necessario rimpiazzare per non dover assistere ad un calo della produzione.
La velocità di crescita delle piante aumenta al crescere del livello dell’anidride carbonica fino a 10.000 parti per milione, l’1% dei gas atmosferici, oltre 25 volte il livello attuale, ma nelle serre non si va oltre le 1.000 / 1.500 ppm, perché a livelli più alti l’aria comincia a creare problemi alla respirazione. Già così però si ottengono considerevoli incrementi di produttività. Ma se durante la coltivazione e fino al raccolto non fosse necessaria la presenza di operatori umani, il tasso di anidride carbonica potrebbe essere portato a livelli molto più alti, cosa che moltiplicherebbe la velocità di crescita di parecchie volte. Per ogni 100 ppm in più, la velocità di crescita aumenta del 10%. Ma la crescita degli organi dove si accumulano i prodotti della fotosintesi (radici, tuberi, semi, frutti ecc.) di solito è ancora più veloce. C’è addirittura c’è chi propone di realizzare coltivazioni idroponiche in edifici di trenta piani, cosa che moltiplicherebbe la produttività per ettaro di altre trenta volte! (vedi l’articolo “L’ascesa dell’agricoltura verticale” pubblicato da Le Scienze nel numero di gennaio 2010). Quindi in definitiva, se si potessero cumulare tutti i fattori che aumentano la produttività, compresa l’illuminazione artificiale e un alto livello di anidride carbonica, ed effettuare la coltivazione su molti piani, si potrebbe arrivare, almeno in teoria, a moltiplicare la produttività per ettaro anche di migliaia di volte.
Un uso più sostenibile del territorio
Ad ogni modo, almeno per il momento, questo non è necessario. Sarebbe sufficiente adottare i fattori incrementali di volta in volta più convenienti per arrivare ad aumenti medi della resa per ettaro “anche solo” di qualche decina di volte, e localizzare queste coltivazioni vicino alle città in modo da sfruttare tutte le possibili sinergie. Altrettanto importante è aumentare la varietà delle piante coltivabili fuori suolo. Già solo così le superfici attualmente impegnate da coltivazioni si potrebbero ridurre a poca cosa. Del resto in Europa la crescita della produttività agricola e dei redditi avvenuta nel dopoguerra ha reso non più conveniente lo sfruttamento di molti terreni marginali, con conseguente aumento dal 50% al 100% della superficie dei boschi. Anche in Italia i boschi sono raddoppiati, e oggi la percentuale del suolo nazionale non sfruttato dalle attività umane è del 55 / 60 %. Ma con le coltivazioni indoor nel giro di qualche decennio si potrebbe arrivare all’85 / 90 %. Sarà necessario imparare a coltivare in ambienti chiusi ogni varietà di fiori e ortaggi, gran parte delle piante da frutto, e persino i cereali. Per esempio il pesco sopporta di essere coltivato in luce artificiale continuativamente per tutte le 24 ore, e sarebbe in grado di produrre i suoi frutti tutto l’anno. La sua coltivazione potrebbe essere abbinata a qualche altra pianta da frutto di piccola taglia o arbustiva (o a qualche pianta da orto). Se venisse coltivato in serra vicino alle città il frutto, facilmente deperibile, potrebbe essere raccolto quando è maturo, non quando è ancora per metà acerbo, come si fa quasi sempre per evitare che vada a male.
In ogni caso quello che serve è tanta ricerca e sperimentazione, allo scopo di individuare le piante e le combinazioni di piante adatte, e per organizzare sempre meglio i cicli di produzione. Se a qualcuno interessa alleggerire l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente, la prima cosa da fare è investire nella ricerca.
L’interesse per le coltivazioni idroponiche è già oggi molto grande, e tra qualche decina d’anni l’agricoltura fuori suolo potrebbe aver sostituito gran parte delle colture tradizionali. Ma cosa ne sarà dei terreni agricoli “liberati”? Una parte potrebbe essere destinata all’ampliamento delle riserve naturalistiche già esistenti. Nelle zone di pianura i parchi naturali sono sempre di estensione limitata. Essi potrebbero gradualmente estendere i propri confini man mano che nuovi terreni verranno lasciati liberi dalle coltivazioni. Ma la maggior parte degli attuali terreni coltivati potrebbe essere destinata ad una agricoltura più verde e sostenibile. Per esempio potrebbero essere piantati alberi di noce, che garantirebbero un reddito immediato con il raccolto autunnale, e un reddito a lunga scadenza sotto forma di pregiato legname da falegnameria. A terra potrebbero essere allevati in stato di semi libertà animali come il cinghiale, il daino, il bufalo ecc. La campagna si riempirebbe di boschi, diventerebbe più verde, più bella, e forse anche più remunerativa. Nello stesso tempo l’economia renderebbe disponibili prodotti alimentari considerati di migliore qualità. Discorso che può valere anche per le noci.
Un’alimentazione migliore
Attualmente la base della nostra alimentazione è costituita dai cereali. Ma come alimento base le noci arrostite sarebbero migliori. In fin dei conti è solo da 10.000 anni o poco più che viene praticata l’agricoltura e che i cereali fanno parte della nostra dieta. E’ a causa di questo fatto, e di un adattamento fisiologico ancora incompleto, che molti manifestano intolleranza al glutine e devono evitare i prodotti a base di cereali. Le noci, e le noci arrostite, invece, fanno parte dell’alimentazione umana da tempi molto più antichi, che si misurano in centinaia di migliaia o milioni di anni. Che le noci siano un alimento molto antico, lo dimostra il fatto che le possiamo mangiare crude (e le possiamo mangiare crude perché le abbiamo incluse nella nostra dieta molto tempo prima che fosse scoperto l’uso alimentare del fuoco). Ciò significa che verso di esse abbiamo un adattamento molto più profondo, e pertanto ci dobbiamo aspettare non solo meno inconvenienti, ma anche dei veri e propri benefici per la salute. Probabilmente abbandonare i cereali per le noci arrostite migliorerebbe le prestazioni fisiche e lo stato di salute generale, e questa dieta quindi potrebbe essere adottata non solo dai celiaci che non tollerano il glutine, ma anche dagli atleti e da chiunque desideri migliorare la propria fitness.
Se si potesse guardare nel futuro come cercano di fare i migliori racconti di fantascienza, probabilmente vedremmo tra qualche decina d’anni non un ambiente devastato, ma una natura più rigogliosa e una campagna sempre più verde, insieme a una più alta qualità della vita. Del resto l’aumento della produttività agricola che c’è stato nel dopoguerra ha già reso più abbondante e ricca la nostra dieta, e ha liberato molti terreni una volta impiegati da un’agricoltura di sussistenza che oggi sono stati riconquistati dal bosco. Ma questa volta la diffusione delle coltivazioni idroponiche farà sì che vengano lasciati liberi i migliori terreni di pianura.