Lo scambio ci rende unici

Non siamo gli unici animali sociali, ma solo noi umani abbiamo superato i confini delle società naturali, abbiamo costruito le civiltà e gli stati e infine una società globale. Principalmente grazie allo scambio, al baratto e al commercio, le cui prime manifestazioni risalgono a oltre centomila anni fa. Gli scambi favoriscono la specializzazione produttiva, e sono quindi il motore dello sviluppo tecnologico e dell’economia. Ma spingono anche le persone appartenenti a società diverse ad instaurare tra di loro delle relazioni pacifiche basate sulla fiducia. Poi dalla fiducia si passa facilmente all’amicizia, all’alleanza e alle relazioni di parentela.
Ed è sempre al commercio che dobbiamo quella straordinaria crescita dell’economia che negli ultimi due secoli ha triplicato la speranza di vita e che ha sconfitto o sta sconfiggendo la povertà un po’ in tutto il mondo. Molti però considerano il commercio una speculazione che, arricchendo alcuni più di altri, sarebbe all’origine delle ingiustizie sociali. Lo scambio però non è un peccato che merita l’inferno e non è nemmeno un’invenzione del capitalismo. Ha invece origini molto antiche ed è profondamente radicato nella natura umana.


Gli esseri umani hanno superato i confini delle società naturali.
Cos’è che ci rende umani, così diversi da tutti gli altri animali? Ogni specie ha delle differenza che la distinguono da tutte le altre, ed è separata da quelle più vicine anche da milioni di anni di evoluzione. Quindi il fatto di essere in qualche aspetto diversi dagli scimpanzé (bipedismo, linguaggio, perdita della pelliccia ecc.) non è in sé sorprendente. Certo, il linguaggio e la cultura sono fondamentali. Ma un altro elemento che ci rende unici è il fatto che solo noi siamo riusciti a superare i confini del nostro gruppo sociale naturale. Solo noi abbiamo superato i limiti della tribù per creare le civiltà e gli stati. E oggi stiamo superando anche le barriere tra gli stati per costruire un’unica società globale. Ecco cosa ci rende davvero unici e anche, a dispetto degli animalisti, superiori a tutte le altre specie viventi.
Una società è tale perché gli individui che la compongono intrattengono tra di loro dei rapporti pacifici e collaborativi che superano gli istinti egoistici. Ma le società naturali sono tanto pacifiche al loro interno quanto conflittuali verso l’esterno. Per esempio gli etologi che studiavano gli scimpanzé allo stato di natura, e che erano rimasti affascinati dalla loro ricca e complessa vita sociale, per tanti aspetti simile alla nostra, ci hanno messo un po’ di tempo ad accorgersi che i rapporti con i gruppi confinanti non erano altrettanto cordiali. Con loro grande sconcerto hanno scoperto che ogni tanto, ma regolarmente, gruppi di quattro o cinque scimpanzé pattugliano i confini del proprio territorio e, quando si imbattono in individui di un gruppo confinante, li aggrediscono e se possono li uccidono.
Gli etologi ci sono rimasti male perché si erano fatti un’opinione troppo “umana” di questi nostri cugini. Ma, a pensarci bene, era proprio questo ciò che avrebbero dovuto aspettarsi.
Tutti gli animali in natura hanno tassi di crescita demografica esponenziale che li spingono crescere di numero sempre più velocemente e all’infinito. Questo vale, ovviamente, anche per gli animali sociali, che tendono ad espandersi a danno dei gruppi confinanti. Nelle regioni di confine si creano quindi delle tensioni che si traducono in uno stato di conflittualità permanente.
Gli esseri umani vissuti nella vicina e lontana preistoria non facevano eccezione. Di nuovo gli antropologi che hanno studiato le ultime popolazioni primitive ci hanno messo molto tempo ad accorgersi che tutte le società di cacciatori raccoglitori, dagli esquimesi ai boscimani, erano in uno stato di guerra permanente con i loro vicini. E, come nel caso degli scimpanzé, questa conflittualità si traduceva in scontri e scaramucce con relative vittime. Di diverso c’è che, mentre le altre scimmie, essendo vegetariane, si limitano ad uccidere i loro nemici, gli uomini primitivi, dopo averli uccisi, di solito li cuocevano e li mangiavano. Anche qui c’è voluto molto perché gli antropologi, riluttanti, accettassero la cruda (o arrostita!) realtà. Ma ci sono prove inoppugnabili che dimostrano che fin dalla preistoria più remota il cannibalismo era una pratica comune.
Le prove più antiche del cannibalismo risalgono a 800.000 anni fa e provengono dal sito della Gran Dolina vicino a Burgos, in Spagna. E se non ce ne sono di più vecchie è probabilmente a causa del fatto che, più si va indietro nel tempo, più i resti fossili dei nostri antenati diventano rari e mal ridotti. Invece, man mano che la documentazione diventa più abbondante, le prove si fanno sempre più numerose, fino ad arrivare ai “moderni” cannibali documentati in diverse parti del mondo.
Quindi anche la specie Homo sapiens allo stato di natura non faceva eccezione: anche noi eravamo rinchiusi all’interno dei confini della nostra tribù e in perenne conflitto con i nostri vicini. Ma ad un certo punto abbiamo cominciato a superare questi confini, che col tempo si sono sempre più rarefatti, fino a scomparire del tutto nella società di oggi. E il superamento dei confini della tribù è avvenuto grazie allo scambio, al baratto e al commercio.
Gli scambi erano iniziati all’interno della tribù. Nelle società di cacciatori raccoglitori le donne raccoglievano i vegetali che costituivano la base dell’alimentazione, e gli uomini praticavano la caccia. Poi condividevano il frutto del loro lavoro. Ecco una prima forma di scambio che non ha riscontro in natura. Lo scambio del cibo tra uomini e donne, e gli altri scambi che si possono immaginare all’interno del gruppo, forse erano stati facilitati dall’uso del fuoco per cuocere i cibi.
Accendere un fuoco richiede molto tempo, ma una volta acceso è facile da condividere. Anche la cottura del cibo richiede del tempo, ma poi il cibo, più nutriente, può essere consumato in pochi minuti. E anche questo può avere favorito la condivisione. A conferma dell’ipotesi che le prime forme di scambio devono essere molto antiche, sta la constatazione che anche i bambini fin da piccolissimi, a differenza di tutte le altre scimmie, scambiano volentieri un oggetto con un altro.
Non è possibile sapere quando sono iniziati gli scambi tra i membri della stessa tribù. Ma essi devono risalire ad un’epoca molto antica, visto che erano praticati anche dai Neanderthal, dal cui ramo ci siamo separati 600 mila anni fa. Mentre le più antiche forme di scambio tra tribù diverse sono documentate da almeno 100.000 / 120.000 anni fa. Risalgono infatti a questa data delle conchiglie forate rinvenute in un sito africano distante 200 chilometri dal mare. Queste conchiglie, per arrivare così lontano dalla spiaggia in cui furono raccolte, devono essere state scambiate più volte tra tribù confinanti, e dimostrano che lo scambio non solo esisteva, ma che a quell’epoca era già ampiamente praticato.
A partire da questo momento si assiste ad una crescita costante sia degli oggetti scambiati, cioè provenienti da lontano, sia della varietà dei prodotti della cultura materiale: strumenti di pietra scheggiata sempre più variegati e sofisticati, strumenti di osso e di corno, e poi arpioni, archi e frecce, ami, reti da pesca, bastoni da getto ecc.


Gli scambi sono il motore della crescita che ha prodotto la civiltà.
Il baratto, come le prime forme di scambio all’interno del gruppo di appartenenza, è tutt’uno con la specializzazione. Chi pratica lo scambio tende a specializzarsi, per diventare sempre più abile a fabbricare quel particolar oggetto e per impiegarci meno tempo, e poi lo scambia con qualcos’altro, a sua volta prodotto da altri specialisti. Così tutti ottengono di più con meno lavoro. E scambiandoli con altri oggetti, riescono a procurarsi delle cose altrimenti impossibili da ottenere. Per esempio avorio, ocra, ambra, ossidiana, tutte cose che si possono trovare in certi luoghi, ma non in altri.
La diffusione degli scambi comporta anche un'altra importante conseguenza: costringe le tribù a sospendere lo stato di conflittualità permanente. Per poter esercitare questa primitiva forma di commercio e goderne i frutti, le ostilità devono essere sospese. Ma è anche necessario che si instauri un rapporto di fiducia reciproca, che ben presto tende ad andare oltre la temporanea sospensione delle ostilità. Dalla fiducia si passa facilmente all’amicizia, all’alleanza e alle relazioni di parentela. Questi rapporti sociali tra individui appartenenti a gruppi sociali diversi (per tutte le altre società animali una contraddizione in termini) comportavano a loro volta spostamenti di persone, circolazione di idee, di tecnologie, di usi e costumi. Gli scambi, quindi, hanno conseguenze che vanno ben al di là dell’aspetto puramente economico. All’origine di tutto c’è la convenienza economica; ma poi gli scambi impongono alle tribù, e in un secondo tempo agli stati, di instaurare tra loro delle relazioni pacifiche. E quello che prima era una breve sospensione delle ostilità, col tempo diventa la regola, mentre i conflitti e le guerre diventano l’eccezione.
C’è però un elemento da tenere sempre presente e che condiziona le vicende umane: la pressione demografica. Come si è visto sopra, tutte le specie in natura hanno un certo potenziale di crescita demografica. Esso crea una competizione per le risorse dalla quale emergono i vincitori che riescono a riprodursi, e i perdenti che si estinguono. Gli esseri umani non facevano eccezione. La pressione demografica si scaricava sia all’interno del gruppo (malattie, incidenti, carestie), sia verso l’esterno con uno stato di conflittualità permanente.
In origine la speranza di vita era molto bassa, intorno ai 25 anni. Poi, in seguito allo sviluppo degli scambi e delle tecnologie, si è allungata fino a circa 40 anni. Nello stesso tempo anche la popolazione aumentava. I sapiens moderni, comparsi in Africa circa 300.000 anni fa, si sono spinti fuori del continente 120.000 anni fa e poi si sono diretti a Est, verso l’Asia. In un primo tempo si sono diffusi lungo le spiagge del sub continente asiatico. Poi, a partire da 40.000 / 45.000 anni fa, hanno colonizzato i territori dell’interno e infine l’Europa.
Dopo l’ultima glaciazione, quando il clima divenne più favorevole, lo sviluppo tecnologico sfociò nelle prime forme di agricoltura e nelle prime città, fiorite più o meno nello stesso periodo in diverse parti del mondo. Così, grazie allo scambio, al baratto e al commercio, l’umanità è passata dalle società naturali alla civiltà, dalla preistoria alla storia.


Il fattore demografico.
I primi agricoltori sono comparsi in Medio Oriente otto o novemila anni fa, e da lì si sono irradiati nelle regioni circostanti. L’agricoltura ha comportato l’abbandono della vita nomade per quella stanziale, con importanti conseguenze di carattere demografico. Infatti il numero di figli per donna è quasi raddoppiato, passando da 5 / 6 a 8 / 10.
Nelle popolazioni nomadi l’allattamento dura tre o quattro anni, e per tutto questo tempo il bambino deve essere trasportato dalla madre nei suoi spostamenti quotidiani alla ricerca del cibo e durante i più lunghi trasferimenti da un sito di insediamento all’altro. L’allattamento non impedisce del tutto alle donne di rimanere incinte, ma dato che non potevano portarsi dietro e allattare due bambini contemporaneamente, se ne nasceva un secondo veniva esposto. Questo limitava il numero massimo di figli che potevano avere.
Questa limitazione venne meno quando le popolazioni divennero stanziali. La durata dell’allattamento diminuì, le nascite aumentano, e i figli che nascevano potevano essere allevati tutti. Questa maggiore natalità, però, non si è tradotta subito in un aumento delle tensioni sociali e della mortalità. Infatti questi primi agricoltori hanno avuto a disposizione per diversi secoli sempre nuovi territori da colonizzare. E poiché la loro densità sul territorio era più alta, hanno sostituito i cacciatori raccoglitori, prima relegandoli nelle zone marginali e poi facendoli scomparire del tutto. Essi quindi hanno potuto conservare per qualche tempo alcuni elementi della società preistorica come la successione ereditaria matrilineare insieme a condizioni di vita relativamente pacifiche. Una situazione che però non poteva durare all’infinito.
A partire dal 5.500 a. C. un popolo di ex agricoltori che abitava le steppe a Nord del Mar Nero e che era riuscito ad addomesticare il cavallo, in successive ondate di espansione verso l’India e verso l’Europa ha conquistato e sottomesso questi primi agricoltori, costringendoli ad adottare il loro modello di società patriarcale e la loro lingua. Da questo ceppo hanno avuto origine tutte le lingue indoeuropee. Ma anche le popolazioni che per ragioni geografiche si erano salvate da queste incursioni (come gli Etruschi), man mano che si esaurivano i territori da mettere a coltura, si sono stratificate e militarizzate. E’ da questo substrato di popolazioni indoeuropee e pre-indoeuropee che hanno avuto origine le più antiche civiltà.
Con la comparsa delle civiltà, senza più territori vergini in cui espandersi e con una pressione demografica molto più alta che nella preistoria, le condizioni di vita peggiorarono. La speranza di vita diminuì di nuovo fino a circa 25 anni, le scaramucce con i vicini si trasformarono in guerre e gli eserciti divennero istituzioni permanenti. Anche così, però, i periodi di pace rimanevano la regola e le guerre l’eccezione. Gli scambi e i commerci, che possono fiorire solo in condizioni di pace e sicurezza, quindi, non vennero meno. Ma la grande maggioranza della popolazione, ridotta ad una condizione servile, ne era quasi del tutto esclusa. Gli stati cercavano di espandersi con le guerre di conquista. I perdenti venivano ridotti in schiavitù, ma i vincitori avevano solo un sollievo temporaneo: presto le nuove terre si esaurivano e c’era bisogno di nuove campagne militari.
I commerci, però, quando tornava la pace, riprendevano. Gli artigiani e i commercianti erano una piccola minoranza che lavorava quasi solo per le elite dominanti. Ma anche così, quando le condizioni erano favorevoli, poteva capitare che delle nuove tecnologie o dei mezzi di trasporto più efficienti facessero crescere per breve tempo l’economia. Una crescita che si traduceva subito in migliori condizioni di vita e in un calo della mortalità. Il calo della mortalità faceva aumentare più in fretta la popolazione, mentre la crescita economica ben presto ristagnava. Il risultato finale era il ritorno alla stessa miseria di prima, ma con una popolazione più numerosa.
Nelle diverse epoche e civiltà ci sono state molte fiammate di crescita che si sono presto esaurite, e che si sono alternate a periodi crisi o a guerre devastanti seguite da carestie. Nel complesso però la popolazione nel lungo periodo è cresciuta, così come sono gradualmente migliorate le tecnologie e le conoscenze scientifiche. Ma solo una volta nella storia, e così arriviamo al tempo presente, la crescita economica è durata abbastanza a lungo da completare il ciclo della transizione demografica. Stiamo parlando della “crescita economica moderna” avvenuta negli ultimi due secoli.
A seguito di questa prolungata fase di crescita i paesi sviluppati hanno raggiunto la stabilità demografica e hanno aumentato la speranza di vita fino a 80 anni. Ma anche nel resto del mondo i tassi di natalità sono in crollo verticale e le condizioni di vita sono in costante miglioramento, come dimostra il dato della media mondiale della speranza di vita che ha ormai raggiunto i 74 anni.


Lo scambio e il commercio hanno molti nemici.
Molti però hanno un’idea negativa del commercio. Sono convinti che sia un gioco a somma zero: qualcuno si arricchisce perché qualcun altro viene impoverito. Non c’è alcuna produzione di beni e quindi di nuova ricchezza. Dove sono quindi i vantaggi per l’economia? Non sarebbe meglio consumare i beni prodotti localmente, cioè a chilometro zero, anziché importarli da lontano? Si risparmierebbe dell’energia, e verrebbe favorita l’economia locale. Non sarebbe meglio fare a meno del commercio e diventare tutti autosufficienti?
In realtà il commercio fa davvero aumentare il valore dei beni, e quindi il volume dell’economia. Infatti, il solo fatto di trasportare un bene da dove è abbondante ed economico a dove è raro e costoso, ne aumenta il valore.
Immaginiamo per esempio di trasportare un metro cubo di acqua dolce dalla Svezia – dove è abbondante ed economica – al deserto del Sahara, dove è rara e costosa. E’ sempre la stessa acqua, ma il suo valore potrebbe aumentare di mille volte. Ed è un aumento di valore reale, perché davvero nel deserto l’acqua vale molto di più. Questo commercio, comunque, non è conveniente perché in questo caso il costo del trasporto supererebbe l’aumento di valore.
In epoca storica i primi generi di commercio erano le merci di maggior valore e di minore ingombro: spezie, pietre preziose, seta ecc. Poi, man mano che i trasporti diventavano più efficienti e le vie dei traffici più sicure, aumentava la quantità e la varietà delle merci trasportate e scambiate. Fino ad arrivare al giorno d’oggi in cui il costo del trasporto con le navi porta container è particolarmente basso. Spesso è più conveniente, anche dal punto di vista energetico, importare frutta e verdura dall’altra parte del mondo, piuttosto che produrla in loco e conservarla per mesi nei frigoriferi.
Inoltre il commercio ha l’effetto di stimolare la produzione e renderla più efficiente. Secondo la teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo, ogni paese dovrebbe produrre la cosa che riesce a fare meglio e con minor lavoro, e poi scambiarla con i beni di altri produttori specializzati. Così ognuno ottiene di più con meno. Per esempio dopo la Seconda guerra mondiale il Giappone aveva un’economia chiusa e autarchica. Produceva cose come il cotone e la lana a costi molto superiori a quelli del mercato internazionale, e seta e tè a costi inferiori. Gli americani fecero pressioni perché si aprisse all’economia mondiale. Con l’apertura delle frontiere i giapponesi hanno potuto comprare cotone e lana a condizioni molto più favorevoli, e aumentare la produzione di seta e tè. Si stima che, solo per avere abbattuto le barriere commerciali, il volume dell’economia giapponese sia aumentato del 70%. In generale, più i mercati sono aperti, meglio è. E questo è il contrario dell’autosufficienza.
Molti poi vedono una contrapposizione tra l’economia moderna e le attività agricole e artigianali di una volta. C’è chi ha avuto il coraggio di lasciare la città, comprare un pezzo di terra e mettersi a coltivare delle varietà di frutta e verdura che rischiavano di scomparire. Altri hanno recuperato una vecchia attività artigianale per offrire ai consumatori prodotti di qualità migliore. Ma il recupero delle tradizioni artigianali e una maggiore attenzione per la qualità non sono affatto in contrasto con il vivere moderno. Sia perché oggi sono molte le persone che possono spendere di più per prodotti di qualità, ma anche perché queste antiche tradizioni possono essere recuperate senza rinunciare alle conquiste della società moderna. Cioè a cose come l’istruzione, le cure mediche e ospedaliere, l’elettricità, l’acqua corrente, il riscaldamento invernale, le docce calde, il frigo, la lavatrice, le automobili, i telefonini, i viaggi ecc. Tutte cose che una volta nemmeno esistevano o che erano privilegio di pochissimi. Oggi chi vuole tornare alla vita semplice della campagna non è costretto a rinunciare a nessuna di queste comodità.
Altri ancora sono convinti che il libero mercato incoraggi l’egoismo. Non è forse il denaro la quint’essenza dell’egoismo? E non sono nate con il commercio le truffe e le speculazioni? In realtà il mercato non solo favorisce le relazioni amichevoli tra le persone e tra gli stati, ma anche l’onestà, la generosità e la compassione umana. Il commercio punisce la disonestà, perché chi si guadagna la reputazione di disonesto non troverà nessuno disposto a fare affari con lui. E fa calare anche gli omicidi. In Europa, prima della rivoluzione industriale, il loro numero era dieci volte maggiore di oggi, e questa diminuzione è iniziata proprio nei paesi che commerciavano di più, l’Olanda e l’Inghilterra. Ed è stata l’Inghilterra che si stava industrializzando all’inizio dell’Ottocento ad abolire per prima la schiavitù e il lavoro minorile. Infine il commercio e le connesse attività economiche hanno sconfitto la povertà estrema dei secoli passati, con tutte le miserie anche morali che si portava dietro.
A questo punto però qualcuno potrebbe obiettare che nel commercio c’è sempre una forte competizione, e una competizione spietata, perché di mezzo ci sono i soldi. Ma intanto questa competizione è pacifica e non sanguinosa, perché il commercio può svolgersi solo in un contesto non conflittuale. Questo d’altra parte non significa che l’egoismo sia scomparso. Ma solo che il commercio favorisce le relazioni pacifiche con persone estranee allo scopo di ottenere dei benefici economici. E’ questa la spiegazione dei sorrisi della pubblicità o delle espressioni di cortesia delle lettere commerciali. Espressioni di cortesia che non sono finte, ma veramente amichevoli. E’ la vittoria del più gentile: riesce a conquistare il cliente chi si dimostra più gentile e amichevole. Anche se c’è sempre qualcuno che cerca di rifilarti qualcosa di cui non hai bisogno o di ingannarti con una truffa perché l’egoismo non scompare mai, il commercio può anche essere visto come una gara a chi è più gentile.
Eppure c’è sempre qualcuno a cui il commercio e l’economia moderna danno un terribile fastidio. Qualcuno che ha riposto tutte le sue speranze in una ideologia o in una religione, e che non tollera che le proprie certezze vengano messe in discussione da chi pensa o crede in qualcosa di diverso. Ancora peggio, non accetta che si possa diventare più ricchi, più benestanti e più felici con il proprio lavoro e facendo crescere l’economia. Per questo essi condannano il benessere e la felicità come immorali. E quando nel Novecento i regimi anti liberali e le ideologie contrarie all’economia di mercato hanno preso il sopravvento, il risultato sono state due guerre devastanti, lo sterminio di decine di milioni di persone e la vita rovinata di moltissime altre. E ancora oggi il fondamentalismo religioso e una vecchia ideologia ottocentesca continuano la loro guerra alla società moderna nata dal commercio.
Il regime sovietico sterminava o condannava al gulag anche chi praticava le più minute forme di commercio. Lo scambio ed il commercio però non sono né la causa delle ingiustizie sociali né un peccato che merita l’inferno, e non sono nemmeno un’invenzione del capitalismo. Essi sono invece una componente fondamentale della natura umana vecchia di centinaia di migliaia di anni. E sono anche ciò che più di ogni altra cosa ci rende umani: unici, e non solo un po’ diversi, da tutti gli altri animali.