Lo sviluppo come soluzione dei problemi dell’ambiente

La società moderna è l’unica sostenibile sul piano sociale.
In tutte le altre epoche storiche e civiltà le condizioni di vita sono state sempre quelle di una miseria assoluta e di disparità sociali infinite. Una volta la statura era più bassa perché l’alimentazione era troppo povera di proteine. La popolazione era molto meno numerosa e viveva quasi tutta nelle campagne, perché l’80 / 90% della forza lavoro era impiegata nell’agricoltura. Di conseguenza le città erano molto, molto più piccole di oggi.
Quasi tutti vestivano di stracci e vivevano in condizioni di sovraffollamento in tuguri malsani o in baracche di legno. Quasi tutti i lavori, sia nelle campagne che nelle città, erano di pura fatica e la grande maggioranza della gente viveva in uno stato di schiavitù di nome o di fatto. La mortalità infantile era del 40 / 50%, la lunghezza media della vita era di 24 anni (in Europa negli ultimi secoli di circa 30), mentre l’aspettativa di vita di chi sopravviveva alla prima infanzia era di 33 o 34 anni. Il tasso di violenza e di omicidi era decine di volte più alto di oggi eccetera.
E’ con questa realtà che dobbiamo confrontare le nostre attuali condizioni di vita. E’ questa la nostra eredità ancestrale. Una povertà assoluta che abbiamo dimenticato proprio perché ce ne siamo allontanati così tanto.
Se l’Europa non avesse scoperto la formula magica del benessere, vivremmo ancora adesso nelle terribili condizioni di vita dei secoli passati. La nostra esistenza sarebbe quasi certamente breve, segnata dalla fatica e dalla fame, dalla precarietà, dalla violenza, dall’ignoranza e da terribili condizioni igieniche. Ed è importante capire come abbiamo fatto ad uscire dalla trappola della povertà, per progettare il nostro futuro e per far uscire il resto del mondo dalla stessa secolare miseria.
La società moderna ha moltiplicato i beni che servono a soddisfare i bisogni primari trasformando la produzione da artigianale a industriale. La modernizzazione dell’agricoltura ha aumentato di alcune decine di volte sia le rese per ettaro che l’efficienza del lavoro umano. Quasi tutta la forza lavoro agricola, divenuta superflua, si è trasferita nelle città dove produce, e in maniera molto più efficiente, tutti gli altri beni e servizi che rendono prospero un paese.
Però, nonostante questi cambiamenti, di ingiustizie e disparità sociali ce ne sono ancora molte e noi, come è giusto, le attribuiamo alla società di oggi. Infatti per diminuirle ancora di più dobbiamo migliorare la società in cui viviamo. Ma accusare la società moderna in quanto tale di essere la causa delle ingiustizie sociali è l’errore più grande che si possa fare, perché è proprio questo modello di società (rivoluzione scientifica e tecnologica, economia di mercato e libertà) che le ha fatte già diminuire, e che le ha fatte diminuire così tanto. E se vogliamo che diminuiscano ancora dobbiamo proseguire sulla strada della modernità, non tornare al Medioevo.
La società moderna è la soluzione, non il problema. Essa ha già migliorato le condizioni di vita al punto che la sua lunghezza è triplicata. Già da molto tempo la miseria assoluta di tutte le altre epoche non esiste più in nessun angolo del pianeta. La società moderna ha anche abolito la schiavitù e fatto quasi scomparire il razzismo e le disparità di genere. Questo è l’unico modello sostenibile sul piano sociale mai comparso nella storia umana.


La società moderna è l’unica sostenibile anche sul piano ambientale.
Però anche molti di quelli che ringraziano la società moderna per avere migliorato le nostre condizioni di vita, sono convinti che essa non sia sostenibile sul piano ambientale.
Perché se è vero che ha moltiplicato la disponibilità dei beni che servono a soddisfare i nostri bisogni primari, è in questo che consiste il “benessere”, essa ha anche aumentato la pressione antropica sull’ambiente, anche perché nel frattempo la popolazione è molto aumentata.
L’abbondanza di beni di ogni tipo ha fatto crollare i tassi di mortalità. Però per molto tempo i tassi di natalità sono rimasti alti, con il risultato di un boom demografico – la transizione demografica - che ha moltiplicato di sette o otto volte la popolazione iniziale.
Però non è aumentata solo la popolazione, sono aumentati di diverse volte anche i consumi di cibo pro capite, sia in quantità che in qualità. In particolare consumiamo molte più proteine animali, la cui produzione esercita un impatto ambientale da 5 a 10 volte superiore rispetto ai vegetali. E’ come se la produzione del cibo fosse aumentata di 30 volte. Quindi l’impatto ambientale delle attività agricole dovrebbe essere aumentato nella stessa misura.
Invece questo non è avvenuto. Anzi, dato che la modernizzazione dell’agricoltura ha aumentato la produzione del cibo molto di più, l’impatto ambientale di agricoltura e allevamento in realtà è diminuito.
A dimostrarlo c’è la constatazione che nel secondo dopoguerra, proprio in coincidenza con il massimo livello della popolazione e dei consumi mai raggiunto in Italia, molto superiore a quello di qualsiasi altra epoca, la superficie dei boschi è raddoppiata. E ai boschi bisogna aggiungere molte aree aperte in zone di montagna, che oggi sono tenute a prato dagli erbivori selvatici. Sì, perché nel frattempo è tornata la fauna selvatica, che nei secoli passati era stata cacciata fino all’estinzione da una popolazione molto meno numerosa, ma sempre povera e affamata.
Infine le migliorate condizioni di vita hanno fatto scendere i tassi di natalità fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio, con bassi tassi di natalità e di mortalità. E l’equilibrio demografico è la principale condizione sia della sostenibilità sociale che di quella ambientale.
Per quanto riguarda i beni diversi da quelli agricoli, l’economia moderna non li ha solo moltiplicati, ne ha anche inventato molti altri di nuovi. Di conseguenza l’impatto ambientale dell’economia industriale è stato enorme. Diverse forme di inquinamento hanno peggiorato la qualità dell’aria, dell’acqua e del suolo, e persino dei cibi che mangiamo.
Per questo molti pensano che la società moderna non sia sostenibile. Però essi partono dal presupposto che la produzione dei beni materiali aumenti all’infinito. Invece la produzione aumenta solo finché non viene saturato il mercato, e da allora, a seconda dei settori, essa si stabilizza, diminuisce oppure crolla. Da noi questa inversione di tendenza è avvenuta negli anni Settanta.
Un altro motivo che rende l’economia moderna molto più sostenibile e sempre più sostenibile è che i beni di cui abbiamo bisogno, a partire da quelli agricoli, li produciamo con sempre maggiore efficienza. E quello che conta dal punto di vista ambientale non è tanto la quantità dei beni che produciamo e consumiamo, ma la quantità delle risorse naturali che abbiamo usato per produrli. E se aumenta l’efficienza, diminuisce in proporzione il consumo di queste ultime.
Infine una volta soddisfatti i bisogni primari, emergono dei bisogni più sofisticati, soddisfatti dall’economia dei servizi, tra cui quello di proteggere l’ambiente. E la società moderna è l’unica che ha l’interesse, la capacità e i mezzi economici per diminuire la pressione sull’ambiente e anche per riparare molti dei danni causati dalla precedente fase di crescita. Per tutti questi motivi la società industriale matura è l’unica sostenibile anche sul piano ambientale.
Questo per quanto riguarda l’Italia e i paesi più sviluppati. Quanto agli emergenti, essi stanno percorrendo la stessa strada di quelli che si sono sviluppati per primi con solo qualche decennio di ritardo. Dato che la loro popolazione è molto più numerosa, negli ultimi decenni essi hanno aumentato in maniera preoccupante la pressione antropica globale. Ma anche loro, man mano che continueranno a crescere, sostituiranno a poco a poco i beni materiali con i servizi, le loro economie diventeranno sempre più efficienti e infine cominceranno a preoccuparsi dell’ambiente, come del resto sta già avvenendo.


La scelta tra crescita e decrescita.
Molti però pensano che per salvare l’ambiente sia necessario trasformare la crescita in decrescita, e anche che sia possibile una decrescita “felice”. Altri invece, come questo sito, sostengono che la crescita è necessaria anche per la sostenibilità ambientale, e che coltivare il mito della decrescita, meglio conosciuta come crisi economica, sia l’errore più grande che si possa fare.
A prima vista, dato che i danni all’ambiente sono dovuti alle attività economiche, la decrescita sembrerebbe la soluzione obbligata: se la produzione e il commercio diminuiscono, diminuiranno anche i danni all’ambiente. Del resto questa era anche l’opinione di chi scrive prima di cominciare ad occuparsi di questo argomento. Sì, le moderne tecnologie hanno molto migliorato le nostre condizioni di vita, ma al prezzo di una crescita economica sempre più insostenibile. Andando avanti di questo passo finiremo col distruggere la vita sulla Terra!
Nel passato, quando le tecnologie rimanevano sempre le stesse, l’unico modo per aumentare la produzione era intensificare lo sfruttamento delle risorse naturali. Per esempio per produrre più cibo era necessario coltivare sempre più terra, sottraendola alla natura. Che è proprio quello che avviene nella prima fase della “crescita economica moderna”.
Infatti all’inizio le tecniche produttive sono ancora inefficienti e la popolazione è in crescita demografica esponenziale. Ma poi è proprio la società moderna che fa cessare la crescita demografica, che sostituisce la maggior parte dei beni materiali con i servizi e che aumenta l’efficienza produttiva. E questa stessa considerazione dimostra che i danni inferti all’ambiente possono essere considerati un’eredità del passato.
Infatti tutte le società del passato erano in crescita demografica esponenziale, che è il paradigma dell’insostenibilità. I paesi più sviluppati hanno raggiunto da tempo uno stabile equilibrio demografico, mentre i paesi emergenti ci stanno a poco a poco arrivando.


Lo sviluppo come soluzione del problema demografico.
Tutte le specie viventi cercano di occupare ogni spazio disponibile alla massima velocità consentita dal proprio potenziale di crescita demografica. Una femmina di cinghiale partorisce 8 /10 figli all’anno, e i piccoli in poco tempo diventano adulti e possono a loro volta procreare. In condizioni ottimali (territorio libero in cui espandersi e assenza di nemici naturali) il potenziale di crescita dei cinghiali potrebbe essere del 700% all’anno.
Un potenziale di crescita così elevato è utile per occupare prima della concorrenza un nuovo ambiente, per esempio i boschi degli Appennini di 30 anni fa. Ma un grande spazio libero è una situazione insolita. In condizioni normali non ci sono nuovi spazi in cui scaricare l’eccesso della popolazione, che quindi non può crescere. E se la popolazione non aumenta, vuol dire che la mortalità deve essere tale da compensare la natalità, quindi altrettanto alta. Una condizione che vale per tutti gli esseri viventi esistenti in natura, e anche per l’umanità fino all’epoca moderna.
Il potenziale di crescita demografica della specie umana è almeno del 5% annuo. Molto più basso di quello dei cinghiali, ma comunque in grado di raddoppiare la popolazione ogni 13 /14 anni. A questo tasso di crescita in 1.000 anni una popolazione raddoppierebbe 71,43 volte (1000 : 14) raggiungendo numeri spropositati. Ma anche il tasso di crescita più modesto dell’1% annuo, nel medio – lungo periodo sarebbe insostenibile. Infatti nel corso di 2.000 anni esso farebbe raddoppiare la popolazione 27,8 volte (2000 : 72), il che equivale a moltiplicare la popolazione iniziale per oltre 100 milioni!
E come per i cinghiali, anche per gli esseri umani è raro che ci siano degli spazi liberi da occupare. Questo è avvenuto in Europa nei primi tre secoli dello scorso millennio, che hanno visto la popolazione crescere, sia pure lentamente per via delle primitive condizioni di vita, fino ad occupare tutti i terreni coltivabili. Ma una volta che questi si sono esauriti, è sopraggiunta la crisi, che ha fatto aumentare il tasso di mortalità fino ad eguagliare quello di natalità. Così l’Europa è tornata alla situazione descritta da Malthus, identica a quella degli animali in natura, che non a caso è stata posta da Darwin a fondamento della sua teoria della selezione naturale.
Ma la società moderna nata con la rivoluzione industriale sfugge a questo destino. Secondo la logica maltusiana, quando aumenta la produttività e quindi la disponibilità di cibo, la popolazione dovrebbe aumentare fino ad esaurire questa maggiore disponibilità, poi la mortalità dovrebbe riprendere a crescere fino ad eguagliare la natalità. Invece, raggiunto un certo livello di benessere, succede il contrario: la natalità comincia a diminuire e alla fine la popolazione trova un nuovo equilibrio con bassi tassi di natalità e di mortalità.
Gli esseri umani erano già i soli animali dotati di cultura e di linguaggio (vedi l’articolo “Perché gli esseri umani sono diversi”). Sono ancora unici perché sono i soli animali sociali che hanno superato i limiti della tribù per costruire società di milioni di persone e arrivare alla fine ad un’unica società globale (vedi l’articolo “Lo scambio ci rende unici”). Infine siamo l’unica specie animale che sta raggiungendo l’equilibrio demografico. Un equilibrio che è la principale condizione sia della sostenibilità sociale, cioè della sconfitta della povertà, che di quella ambientale. Ma vediamo in dettaglio come è migliorato in questi anni lo stato dell’ambiente nei paesi più sviluppati.


L’aumento della produttività agricola fa crescere il bosco.
L’agricoltura moderna è l’esempio più importante di come un aumento della produttività possa diminuire la pressione sugli ecosistemi naturali.
Lo sviluppo della chimica ci ha messo a disposizione i fertilizzanti sintetici. Quello della meccanica le macchine per la lavorazione del terreno, che hanno anche liberato la maggior parte della manodopera rendendola disponibile per la produzione di altri beni e servizi. Infine la selezione incrociata ha aumentato la produttività sia delle piante che degli animali d’allevamento. Altri aumenti sono stati ottenuti con l’irrigazione forzata, con gli antiparassitari e con migliori soluzioni per la conservazione dei raccolti.
Negli ultimi 200 anni la produzione agricola è aumentata di diverse decine di volte, e oggi l’agricoltura riesce a nutrire molto meglio di prima una popolazione che nel frattempo è cresciuta di sette od otto volte e che ha anche consumi pro capite molto più alti. Ma dato che le rese per ettaro sono aumentate ancora di più, è diminuita la pressione sul territorio.
In Italia nel dopoguerra, a causa dell’aumento della produttività agricola e dei redditi, molti terreni di montagna, una volta sfruttati nell’ambito di un’agricoltura o di una pastorizia di sussistenza, sono stati abbandonati e restituiti alla natura. Con la conseguenza che la superficie dei boschi è raddoppiata. E ai boschi bisogna aggiungere molte aree aperte che sono state ripopolate da animali che erano da tempo scomparsi: cinghiali, cervi, daini, caprioli, lupi, orsi.

I dati sono eloquenti. Verso la metà dell’800 i boschi coprivano 5.025.000 ettari pari al 16,7% dell’attuale superficie nazionale e nel 1948 /’49 la copertura verde era salita a 5.600.000 ha. Secondo l’Inventario Nazionale delle Foreste e dei serbatoi forestali di Carbonio del Ministero Agricoltura e Foreste (pagina web non più disponibile), nell’anno 2005 la superficie forestale era di 10.467.533 ha (34,9%), di cui 8.759.200 costituiti da boschi veri e propri, e i restanti 1.708.333 da altre superfici boscate, cioè da arbusteti e macchia mediterranea. In altre parole la superficie dei boschi è passata dal 16,7% del 1850 al 18,6% del 1948 al 34,9 % del 2005, e continua ad aumentare anche se a ritmo più lento. Attualmente potrebbe aver superato il 38%, con un aumento nel dopoguerra di oltre il 100%. Alla crescita delle foreste hanno contribuito i rimboschimenti, ma d’altro canto essa è stata rallentata dagli incendi.

La situazione dell’Italia è analoga a quella di tutti gli altri paesi sviluppati e oggi anche dei paesi emergenti più avanzati. In America ci sono più boschi adesso che al tempo degli Indiani, mentre in Giappone, uno dei paesi più industrializzati e intensamente popolati del mondo, i boschi coprono i due terzi della superficie.

Questi dati sono importanti. Non è la prima volta che diminuiscono le superfici coltivate e aumentano i boschi. Era già successo in Europa dopo la caduta dell’Impero Romano. Ma questa volta l’aumento della copertura verde e il ritorno della fauna selvatica non sono la conseguenza di un crollo demografico; al contrario essi coincidono con il massimo livello della popolazione e dei consumi mai raggiunto nel nostro paese. Un fatto che dimostra che il nostro modello di economia è diverso dal passato: un’agricoltura che quando aumenta la produzione raddoppia la superficie dei boschi! In realtà se aumenta la produttività, cioè se aumenta l’efficienza con cui usiamo la risorsa territorio, e se aumenta più dei consumi, è vero il contrario. E il discorso che riguarda il territorio lo si può estendere anche alle altre risorse primarie: se aumenta l’efficienza, a parità di beni prodotti diminuisce il consumo di materie prime e di energia.



Un’economia matura consuma meno materie prime e inquina di meno.
Nella prima metà del dopoguerra sono aumentati i consumi di materie prime ed energia, e quindi anche l’inquinamento e l’impatto ambientale, che hanno raggiunto i loro valori massimi negli anni Sessanta. La crescita produttiva è stata veloce, perché era trainata da molti bisogni primari insoddisfatti, e anche da una popolazione che stava ancora aumentando.
Ma nel corso degli anni Settanta la produzione dei beni materiali ha invertito il suo trend di crescita e, a seconda dei settori, si è stabilizzata, è diminuita o è crollata.
Anche i consumi energetici nel corso degli anni Ottanta si sono fermati. Poi hanno ripreso a crescere, ma al ritmo più lento dell’1% annuo (mentre prima crescevano del 2,5% e negli anni del boom economico ancora di più).
Il raggiungimento dell’equilibrio demografico e dei limiti del mercato sono solo alcuni dei motivi per cui l’economia diventa più sostenibile. Gli altri sono: gli aumenti di efficienza e l’approvazione di misure per abbattere le emissioni inquinanti, depurare le acque di scarico e riciclare i rifiuti. A questo punto però è opportuno esaminare l’andamento dell’economia settore per settore.
Generi alimentari. Subito dopo la guerra l’Italia era ancora un paese povero e arretrato, con in più i danni dei bombardamenti. L’alimentazione era insufficiente in quantità e qualità, ma ben presto queste carenze sono state colmate. Poi i consumi alimentari non sono più cresciuti in termini quantitativi, sia perché più di tanto non possiamo mangiare, sia perché la popolazione stava smettendo di crescere. A questo punto le aziende del settore, per incrementare il loro volume d’affari, hanno puntato sulla qualità, mentre le moderne tecniche agronomiche continuavano ad aumentare la produttività e a diminuire la pressione sul territorio.
Certamente l’agricoltura moderna usa una discreta quantità di energia sotto forma di fertilizzanti e macchine agricole. Ma non bisogna dimenticare che il territorio è la nostra principale risorsa ambientale, e che anche la produzione dell’energia, come si vedrà più avanti, può diventare più efficiente. Infine la produttività agricola potrebbe aumentare ancora molto in futuro, per esempio man mano che si diffonderanno le coltivazioni idroponiche.
Attività edilizia. In Italia alla fine della guerra metà della forza lavoro era impiegata in agricoltura; oggi solo il 3,5%. L’espulsione di quasi tutta la forza lavoro agricola ha determinato un vero e proprio esodo dalle campagne alle città. Inoltre subito dopo la guerra vivevamo in media in quattro per stanza, ma con l’aumento dei redditi è aumentato il fabbisogno di spazi abitativi pro capite e oggi abbiamo a disposizione più di una stanza a testa. La domanda di nuove abitazioni ha fatto esplodere le città. Ma nel corso degli anni Settanta, man mano che questa grande fame di case veniva soddisfatta, c’era sempre meno bisogno di costruirne di nuove.
Un discorso analogo riguarda gli altri sottosettori dell’edilizia: strade, autostrade, fabbriche, uffici, negozi ecc. Per esempio, negli anni Sessanta abbiamo costruito tutto il nostro sistema autostradale; ma proprio perché le autostrade le avevamo già costruite tutte, negli anni Settanta non ne abbiamo costruita nessun’altra. Quindi l’intero settore dell’economia che costruiva autostrade ha chiuso. Alla fine del decennio l’attività edilizia si era ridotta a poca cosa, e con essa era crollato anche il consumo di materie prime industriali come l’acciaio, il rame e il cemento. Nel 1980 ci fu la crisi dell’acciaio, una crisi di sovrapproduzione. I paesi più sviluppati dell’epoca dovettero accordarsi per suddividersi le quote di produzione, che si attestarono sul 40% o anche meno dei valori precedenti. In altre parole la produzione di un bene industriale così significativo come l’acciaio in un solo anno è crollata di oltre il 60%! Anche la domanda delle altre materie prime minerarie è crollata, per esempio quella del rame. Negli anni seguenti molte grandi miniere di rame in Nord e Sud America avevano chiuso, e per tutti gli anni Novanta sembrava che non dovessero più riaprire. Poi invece hanno ripreso l’attività e i prezzi sono tornati alti, ma a causa della domanda dei paesi emergenti. Se fosse stato per i paesi più sviluppati queste miniere non avrebbero mai più riaperto.
Mobili ed elettrodomestici. Anche questo settore nella prima metà del dopoguerra ha conosciuto una forte espansione. Per esempio, finché una famiglia su due aveva la lavatrice e l’altra no, chi non l’aveva faceva di tutto per comprarla, e questo trainava il mercato. Ma quando si arriva al punto che tutti hanno in casa la lavatrice, perché l’industria possa venderne un’altra bisogna che una di quelle che ha venduto prima si rompa. Si passa cioè da un mercato in crescita a uno di sostituzione, con volumi produttivi molto più bassi. Alla diminuzione delle vendite le industrie hanno risposto con diverse strategie: hanno accorciato la vita di molti prodotti o li hanno rinnovati più spesso in modo da accelerarne il ricambio. Oppure ne hanno creati di nuovi come i computer e i telefonini e hanno cercato di espandersi sui mercati esteri. Ma se ci si limita al mercato interno, tutte queste misure sono riuscite a compensare solo in parte il calo delle vendite.
Servizi. Se pensiamo che la produzione dei beni materiali non sia diminuita, è perché non è diminuito il loro consumo. Per esempio non abbiamo mai smesso di andare in autostrada, anche se per tanto tempo non ne abbiamo più costruite delle altre. Inoltre, dato che non è diminuita la capacità di spesa, quella che non veniva più impiegata nell’acquisto dei beni materiali adesso si dirigeva sui servizi, che sono cresciuti al punto che oggi coprono i tre quarti dell’economia.
Dato che i servizi soddisfano dei bisogni meno fondamentali, essi spingono l’economia con meno forza. L’economia quindi non può più crescere alla stessa velocità di prima (per questo è finito il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta). In compenso, proprio perché i servizi soddisfano dei bisogni più sofisticati, tra cui quello di proteggere l’ambiente, essi fanno fare alla società un altro salto di qualità. Molti sevizi come l’istruzione e la sanità sono pubblici, mentre gli altri sono forniti dai privati: commercio, trasporti, informazione, cultura, servizi alla persona, turismo, ristorazione ecc.
I servizi, dato che sono beni immateriali, esercitano un impatto ambientale molto minore. E’ pur vero che tra i servizi ci sono i trasporti che consumano molta energia. D’altra parte i beni materiali che produciamo incorporano una grande quantità e una quantità crescente di servizi che ne aumentano la qualità e il valore. Siamo davvero una società in grande prevalenza di servizi.
Automobili. Quindi la produzione dei beni materiali è crollata. Però i consumi di energia hanno solo rallentato il loro trend di crescita e la colpa è principalmente dell’automobile. Anche le quattro ruote alla fine degli anni Settanta hanno raggiunto i limiti del mercato. Ma da quel momento le case automobilistiche hanno convinto i loro clienti a comprare delle auto sempre più grandi e sempre più potenti, che però hanno bisogno di più materie prime per essere fabbricate e consumano più carburante. E questi maggiori consumi hanno più che compensato il calo avvenuto negli altri settori produttivi. Se anche quello dell’auto si fosse comportato come gli altri settori economici, la sostenibilità di un’economia industriale matura sarebbe risultata evidente. D’altra parte questo significa che basterebbe introdurre dei modelli di auto più efficienti per far crollare i consumi energetici. Ed effettivamente nel nostro prossimo futuro ci sono le auto elettriche, che abbatteranno i consumi di energia e di metalli. Però, nonostante l’aumento dei consumi energetici, a partire dalla metà degli anni Novanta nel nostro paese le emissioni di anidride carbonica si sono circa dimezzate.
Centrali a turbogas. Nel campo dell’energia l’innovazione più importante degli ultimi anni è quella delle centrali a turbogas. Questi impianti usano il metano, un combustibile più abbondante, pulito ed economico del petrolio, e lo usano con molta maggiore efficienza. Il loro rendimento è prossimo al 60%, molto più alto cioè del limite teorico del 39% del ciclo di Carnot. Questo grazie al ciclo combinato: due cicli termodinamici che complessivamente producono molta più energia delle centrali elettriche precedenti. Inoltre, dato che esse consumano un combustibile molto più pulito, vengono costruite vicino alle città e questo comporta ulteriori vantaggi. In particolare diventa più facile usare l’acqua calda, dopo che è servita per il raffreddamento dell’impianto, per scaldare case e uffici in inverno. Il rendimento complessivo in media d’anno potrebbe così arrivare al 75%. Per un confronto le migliori centrali a carbone e a nafta avevano rendimenti di circa il 35% e quelle a metano del 30%. Questo significa che le centrali a turbogas hanno rendimenti quasi doppi di quelle che hanno sostituito e pertanto esse producono la stessa quantità di energia elettrica con poco più della metà del combustibile. E un combustibile, il metano, che a parità di calorie produce un terzo in meno di anidride carbonica della nafta e il 60% in meno del carbone.
Il metano ha sostituito la nafta e il gasolio anche nel riscaldamento degli edifici (in compenso nel dopoguerra è molto aumentato il volume dei locali riscaldati, che poi in un secondo momento sono stati isolati molto meglio). Le emissioni del principale gas serra, però, sono diminuite anche per un altro motivo.
Nei giacimenti petroliferi c’è quasi sempre del gas naturale che sale in superficie insieme con il petrolio, una quantità che in media è grande quanto quella del petrolio che viene estratto. Però fin dall’inizio delle estrazioni petrolifere il gas veniva incendiato appena saliva in superficie perché il metano, la componente di gran lunga principale del gas naturale, miscelato con l’aria forma una miscela esplosiva. Solo nel secondo dopoguerra alcuni paesi, tra cui l’Italia, si erano dotati di una infrastruttura per distribuirlo e utilizzarlo. Però ancora a metà degli anni Novanta forse l’80% di tutto il gas che saliva in superficie insieme al petrolio veniva bruciato inutilmente in questo modo.
Le centrali a turbogas hanno fatto diventare il gas naturale quasi più importante del petrolio e da allora sono stati costruiti molti metanodotti per trasportarlo fino ai luoghi di consumo. E la maggior parte di questo gas, che una volta veniva sprecato, oggi alimenta delle centrali molto più efficienti e sostituisce una quantità quasi doppia di nafta o di carbone. Ma anche dove non ci sono i metanodotti, oggi il gas naturale non viene quasi mai incendiato, ma reimmesso in pressione nel sottosuolo per un uso futuro. Per tutti questi motivi, nonostante un discreto aumento dei consumi energetici, negli ultimi 25 anni il nostro e molti altri paesi hanno circa dimezzato le proprie emissioni di anidride carbonica.


La sostenibilità dei paesi emergenti.
Quindi i paesi sviluppati sono oggi, quasi da ogni punto di vista, molto più sostenibili di 50 anni fa e sostenibili col tempo lo diventano sempre di più. Ma come stanno i paesi emergenti?
Per molti aspetti il loro impatto ambientale sta aumentando. E molti temono che se la loro crescita dovesse continuare fino a raggiungere i paesi più sviluppati, la pressione sull’ambiente diventerebbe insostenibile.
La crescita recente dei paesi emergenti ha aumentato l’impatto ambientale in maniera considerevole, sia perché essi hanno una popolazione molto più numerosa, sia perché di solito sono partiti da molto più indietro dell’Italia del 1945. Però man mano che si sviluppano il loro impatto ambientale cresce sempre più lentamente e forse in questo momento ha già invertito la tendenza e sta diminuendo.
I paesi emergenti stanno percorrendo la stessa strada di quelli sviluppati con solo qualche decennio di ritardo. Per completare il loro sviluppo e raggiungere i paesi più sviluppati dovranno crescere ancora, a seconda dei casi, per altri 5, 10 o 20 anni.
C’è un dato importante di provenienza ONU. Nel 2017 il 9% più povero della popolazione mondiale aveva una speranza di vita di 62 anni. Questa era la speranza di vita in Italia subito dopo la II Guerra mondiale. Per questo e per altri indicatori – percentuale di forza lavoro agricola e tasso di natalità – il livello di sviluppo dell’Italia di allora era più o meno uguale a quello del 10% più povero della popolazione mondiale oggi. Partendo da lì, quanto tempo ci abbiamo impiegato per arrivare alla fine del nostro boom economico? Una ventina d’anni o poco più. E quanto ci impiegherà questo 9% per raggiungere lo stesso risultato? Più o meno lo stesso tempo!
Certo, se un paese non cresce, di tempo ce ne vorrà di più. Però la maggior parte dei paesi emergenti sta crescendo a ritmi che sono anche più veloci di quelli dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta.
Oppure invece che di paesi si può parlare di aree di classe media in espansione all’interno dei paesi. Aree nelle quali i bisogni fondamentali sono già stati soddisfatti e l’economia si sta spostando sui servizi. Ma la sostanza del discorso non cambia. In un primo momento le aree urbane e le regioni meglio connesse con il commercio internazionale crescono più velocemente di quelle più remote e isolate. Però, una volta raggiunti i limiti del mercato, la loro crescita rallenta. Mentre le aree più arretrate, man mano che le infrastrutture migliorano, proseguono la loro risalita e alla fine la situazione tende ad equilibrarsi.


La produzione del cibo.
Molti oggi sono preoccupati anche dal problema della produzione del cibo, perché pensano che la Terra non possa sfamare i nove miliardi di abitanti previsti per il 2050, oppure che ci sarà un aumento drammatico della pressione ambientale. In effetti negli ultimi decenni molte foreste tropicali sono state abbattute per fare posto a pascoli e coltivazioni (e anche per produrre biocarburanti!). Come faremo a rendere sostenibile la produzione del cibo? In realtà è molto probabile che nei prossimi decenni il problema sarà piuttosto la sovrapproduzione agricola.
Proprio perché i paesi più poveri hanno un’agricoltura arretrata, possono aumentare ancora molto le loro rese per ettaro. Inoltre, non appena essi cominciano ad avere un po’ di risorse da spendere, le investono in interventi per il recupero del territorio e per la creazione di parchi naturali, come del resto sta già avvenendo. Secondo una ricerca recente ci sono una decina di milioni di chilometri quadrati di territorio, impoverito da secoli o millenni di sfruttamento eccessivo, che possono essere recuperati. E sono già in corso in tutto il mondo numerosi piani di rimboschimento, come per esempio il progetto Grande muraglia verde del Sahel.
C’è un’altra importante ricerca da segnalare. Secondo uno studio a firma di Oscar Venter pubblicato da Nature Communications, dal 1993 al 2009 il volume dell’economia mondiale è cresciuto del 153%, la popolazione del 23%, mentre la pressione antropica globale del 9%. Agricoltura e allevamento sono responsabili del 93,8% dell’aumento dell’impronta ecologica, che è interamente da attribuire ai paesi emergenti. Infatti nello stesso periodo quella dei paesi più sviluppati è sicuramente diminuita, anche tenendo conto delle importazioni dai paesi più poveri.
Nel periodo considerato non è aumentata solo la popolazione, ma anche il tenore di vita, come dimostra il dato della crescita economica, che ha fatto sicuramente aumentare anche il consumo di cibo pro capite in quantità e qualità. Pertanto ci si dovrebbe aspettare un grande aumento della pressione ambientale dovuto ad un consumo di cibo molto superiore alla crescita della popolazione, che è stata del 23%. Invece l’impronta ecologica è aumentata molto di meno, solo del 9%. E questo dimostra che deve esserci stato un aumento della produttività agricola. In futuro, con l’ulteriore miglioramento delle tecniche agronomiche, la produttività continuerà ad aumentare col risultato che ben presto la pressione antropica invertirà la tendenza e comincerà a diminuire. E dopo di allora continuerà a diminuire ancora per molto tempo, come è già avvenuto nei paesi più sviluppati.
La crescita demografica. Molti sono preoccupati anche dalla crescita demografica. Eppure negli ultimi 50 anni tutti i tassi di natalità sono crollati, e sono crollati al punto che dalla metà degli anni Novanta il numero di nuovi nati in media mondiale si è più o meno stabilizzato: un risultato epocale! In pratica abbiamo già raggiunto la stabilità demografica anche su scala mondiale, anche se in termini assoluti la popolazione continuerà ad aumentare, a ritmo decrescente, ancora per altri 30 o 40 anni. Ma questo è solo il completamento della transizione demografica. A crescere di numero saranno le classi di età adulte, mentre il numero dei bambini già da molti anni non sta più aumentando.
L’esodo su scala globale dalle campagne alle città. Il resto del mondo sta seguendo quello più sviluppato anche sulla strada dell’urbanizzazione. Nel 2008 la popolazione urbana ha superato quella rurale e continua ad aumentare. Però molti pensano che questo sia un male. Perché abbandonare la tranquilla vita di campagna, il contatto diretto con la natura, per la confusione e il degrado della grande città? Perché la vita nei villaggi e nelle località più remote e isolate di solito è molto peggiore. Nei villaggi e nelle comunità ancora più piccole i condizionamenti sociali impediscono alla maggior parte della gente di compiere delle scelte veramente libere. Inoltre il lavoro è spesso senza orario e senza retribuzione. Nelle città ci saranno altri problemi, ma si è liberi da questi pesanti condizionamenti. E poi ci sono molte più opportunità economiche, si è molto più connessi ed è più facile accedere a servizi come l’istruzione e la sanità. Questi sono i motivi che spingono le famiglie a lasciare le campagne e i villaggi; un esodo compensato in misura sempre minore da una natalità in declino.


In equilibrio con la natura?
L’analisi del tema ambiente e sviluppo è complessa, ma la sua conclusione è concettualmente semplice: la società moderna è la rivoluzione più importante della storia dell’umanità, l’unica che merita davvero questo nome. Ma spesso essa è stata rifiutata proprio da chi a parole vorrebbe un mondo più giusto e sostenibile.
A questo punto non si può non accennare alle molte trasmissioni televisive che mostrano delle tribù primitive o delle famiglie contadine che vivono ancora “in equilibrio con la natura”, che vengono contrapposte alla società moderna che, come sappiamo, è la causa di ogni male. In realtà più primitive sono queste società, più basso è il loro livello di vita. E anche se esse hanno “un grande rispetto per tutti gli animali”, più tempo impiegheranno ad uscire dalla primitività, maggiore sarà il rischio di estinzione per elefanti, rinoceronti, tigri ecc.
Di fatto, così come è avvenuto a suo tempo nei paesi che si sono sviluppati per primi, l’abbandono delle campagne ha conseguenze molto positive per l’ambiente. Perché se è vero che in alcuni casi continuano ad essere abbattute delle foreste per ricavarne legname e terreni agricoli, le aree abbandonate e non più coltivate vengono ben presto riconquistate dalla foresta, e su scala globale già da molto tempo la ricrescita supera gli abbattimenti. Oggi nella fascia tropicale ci sono diversi milioni di chilometri quadrati di foresta secondaria ricresciuta dopo l’abbandono dell’agricoltura di sussistenza.
Così pure molti documentari naturalistici, dopo avere constatato una diminuzione della fauna selvatica, lanciano appelli perché lo sviluppo dei paesi poveri venga fermato. Eppure i loro autori vengono da paesi che, quando anch’essi erano poveri, avevano sterminato la fauna selvatica. Fauna che oggi è tornata proprio grazie allo sviluppo.
Pertanto la società moderna, per i risultati che ha già ottenuto e per quelli che sta ottenendo, è l’unica sostenibile anche sul piano ambientale. E la situazione sarebbe ancora migliore se mangiassimo meno proteine animali come gli scienziati ci consigliano, se usassimo l’ingegneria genetica per abbattere il consumo di pesticidi, se producessimo l’energia di cui abbiamo bisogno con le centrali nucleari e se sostituissimo le auto a benzina con quelle elettriche.
Fare la guerra all’economia e alla società moderna è davvero l’errore più grande che si possa fare.