DIFENDIAMO LA BIODIVERSITA’!

seconda parte



L’IMPATTO DELLA SOCIETA’ MODERNA
La rivoluzione industriale, insieme al moderno modello di stato, ha prodotto un livello di benessere che non ha paragoni in nessun’altra epoca storica. L’aumento del benessere è andato di pari passo con la crescita della popolazione, e la combinazione di questi due fattori ha fatto crescere di parecchie volte l’impatto sull’ambiente.
L’inizio della rivoluzione industriale si pone alla fine del Settecento. Le sue premesse, però, erano state poste nei primi decenni del ‘600 con la rivoluzione scientifica, una rivoluzione che ha le sue radici nei secoli ancora precedenti: un atteggiamento mentale concreto e pratico, nato nel mondo delle attività artigiane e del commercio, in base al quale i fenomeni fisici non erano valutati solo in termini qualitativi, ma erano misurati e pesati, e quindi oggetto di calcoli aritmetici e algebrici divenuti col tempo sempre più sofisticati. E già all’inizio del ‘400, o ancora prima, si era manifestata la superiorità dell’Europa sul piano tecnologico e militare, comprese le tecniche navali. Questo è il motivo per cui la scoperta dell’America e del mondo è stata fatta dall’Europa e non dalla Cina, dall’India o dal mondo arabo. Ed è stato durante la colonizzazione seguita alle grandi scoperte che ha avuto inizio lo sfruttamento di molti nuovi ambienti naturali, con la conseguente perdita di molti habitat. E’ seguita la rivoluzione industriale, diventata matura solo dopo il secondo conflitto mondiale, che ha fatto crescere a dismisura il consumo di materie prime e l’inquinamento. Infine negli ultimi decenni questa rivoluzione si sta estendendo a tutto il resto del mondo, e la perdita di biodiversità proprio in questo momento sta subendo la sua massima accelerazione, e non risparmia nessun angolo del pianeta. E’ difficile però quantificare la profondità e l’estensione dei danni all’ambiente, anche nella fase di cui noi stessi siamo i testimoni.
Infatti non conosciamo nemmeno il numero delle specie viventi, solo una parte delle quali è stata catalogata e descritta. Le specie a cui è stato dato un nome e una descrizione scientifica sono meno di due milioni, ma solo quelle di dimensioni macroscopiche, cioè visibili a occhio nudo, potrebbero ammontare a diverse decine di milioni. Se però si considerano anche i microorganismi terrestri e marini, si potrebbe arrivare a centinaia di milioni.
Per una serie di motivi nelle regioni tropicali ci sono le condizioni non solo per la produzione di una maggiore massa vegetale, ma anche per la per la formazione di un numero di specie molto più alto che nelle regioni temperate. E’ proprio qui che si concentra la biodiversità. Ma nelle foreste tropicali e nelle barriere coralline di specie ce ne sono talmente tante che non è stato possibile farne nemmeno una stima approssimativa. E gran parte di esse si estinguono prima ancora che siano studiate dalla scienza.
Poiché il loro numero non è conosciuto nemmeno come ordine di grandezza, gli scienziati hanno cercato di stimare la percentuale delle specie che possono andare perdute. Studiando gli ecosistemi delle isole, sono riusciti a capire che nelle regioni tropicali il numero delle specie dipende dall’estensione del territorio, e che un territorio dieci volte più esteso è in grado di ospitare un numero doppio di specie. Da qui si deduce che, se si riduce l’estensione delle foreste ad un decimo della superficie originaria, il numero delle specie che ci vivono è destinato a dimezzarsi. E’ molto importante, quindi, stimare la superficie delle foreste equatoriali che continuano ad andare perdute.
Le stime migliori sono quelle da satellite. Secondo quanto riferito da E. O. Wilson, nel 1979 le foreste tropicali venivano distrutte al ritmo dell’1 % annuo, ma dieci anni dopo questo ritmo era aumentato all’1,8 %. Tale percentuale si è ridotta a meno dell’1 % intorno all’anno 2000. Negli ultimi anni, però, il ritmo di distruzione delle foreste del Sud America è di nuovo aumentato. Infatti gli alti prezzi raggiunti dal petrolio hanno convinto paesi come il Brasile a puntare sui biocombustibili ottenuti dalla canna da zucchero, e per questo altre foreste sono state abbattute per fare spazio a nuove coltivazioni. Queste perdite sono però in qualche misura compensate dalla ricrescita spontanea che avviene ai margini, ricrescita che in condizioni favorevoli può sicuramente superare l’1 % all’anno. D’altra parte gran parte dei terreni su cui sorgono le foreste tropicali sono molto poveri, e una volta sfruttati dall’agricoltura hanno bisogno di tempi lunghi per essere recuperati. E comunque devono trascorrere dei secoli prima che si riformi una foresta matura.
Ma la distruzione pura e semplice delle foreste, che in molte regioni sono quasi del tutto scomparse, è solo uno dei danni che vengono inferti a questi ecosistemi. In Africa la caccia agli animali della foresta a scopo alimentare è da tempo insostenibile. La caccia agli animali selvatici fa parte dell’economia tradizionale africana. Ma la crescita della popolazione e il commercio del “bushmeat” hanno aumentato in maniera enorme la pressione sulla fauna. Si stima che di animali ne vengano uccisi ogni anno per un milione di tonnellate. In molti paesi la situazione è aggravata dalle guerre endemiche che costringono gli abitanti dei villaggi a rifugiarsi nei boschi, dove possono sopravvivere solo mangiando animali selvatici. A peggiorare ulteriormente la situazione ci si sono messe anche le industrie del legname, che stanno abbattendo grandi estensioni di foresta per fornire legno duro al grande mercato del legno esotico. Queste società hanno bisogno di vettovagliare migliaia di taglialegna, e hanno assunto cacciatori di professione perché forniscano la carne.
Tra gli animali che vengono cacciati ci sono le scimmie, e tra queste non vengono certo risparmiate le grandi scimmie antropomorfe strettamente imparentate con la specie umana, cioè lo Scimpanzé (Pan troglodytes), il Bonobo (Pan paniscus) e il Gorilla (Gorilla gorilla).
Il bonobo vive solo nella parte centrale del Congo, che dal 1994 è stato devastato da conflitti etnici. Poiché gli scienziati che li studiavano sono fuggiti, non è più possibile calcolarne il numero, ma da vari indizi la loro popolazione è in crollo verticale. Stessa situazione per la gran parte delle popolazioni dei gorilla, colpite in questi anni anche da una devastante epidemia di Ebola. Questa caccia senza sosta sottopone infatti le popolazioni animali e l’intero ecosistema ad un notevole stress, che favorisce la diffusione di pericolose epidemie. C’è inoltre il pericolo che queste epidemie, oltre a fare strage di scimmie, passino per contatto all’uomo. E’ così che l’HIV, un virus endemico negli scimpanzé, ha fatto il salto di specie ed ha scatenato l’epidemia di AIDS. La stessa cosa potrebbe accadere con il virus Ebola, che di tanto in tanto uccide decine di persone in qualche villaggio africano.
E poi c’è la caccia che alimenta il commercio internazionale di animali esotici o di loro parti, per esempio le corna di rinoceronte ricercate dalla medicina tradizionale orientale per le loro presunte virtù afrodisiache, che non risparmia nessun paese dell’area tropicale. Secondo un opuscolo distribuito dal Corpo Forestale dello Stato, il traffico internazionale di animali, piante e loro derivati, è di 350 milioni di esemplari all’anno. Il corno di rinoceronte è anche molto richiesto per fare il manico di un particolare tipo di pugnale usato nello Yemen. A causa del grande valore attribuito a questi prodotti, è molto difficile proteggere questi animali dai bracconieri. Anzi, più gli animali diventano scarsi, più aumenta il loro valore sul mercato, rendendo ancora più difficile l’interdizione di questi traffici.
Passando agli ecosistemi marini, un meccanismo analogo opera nei confronti del tonno rosso, la cui carne è molto apprezzata dai giapponesi per il sushi: l’altissimo prezzo che ha raggiunto incentiva la pesca in tutti i mari del mondo, ma purtroppo non scoraggia i consumatori.
I danni agli ecosistemi marini sono dovuti principalmente alla pesca eccessiva, che oltretutto usa spesso metodi distruttivi come la pesca a strascico che rastrella i fondali e impedisce la riproduzione del pesce. Ci sono poi i danni indiretti dovuti all’uso eccessivo di sostanze azotate in agricoltura, che provoca fenomeni di eutrofizzazione in molti mari costieri. Anche molte barriere coralline stanno subendo una pesca eccessiva, praticata a volte con l’uso di esplosivi. Molte barriere coralline, così come le foreste tropicali a cui assomigliano per la loro ricchezza di biodiversità, rischiano di scomparire prima ancora che vengano studiate. Infine ci sono i danni, che interessano anche le regioni temperate, causati dall’introduzione, anche involontaria, di specie esotiche, e dalla diffusione di nuove devastanti epidemie causate dagli scambi internazionali e tra ecosistemi diversi.
E’ molto difficile avere un quadro completo della situazione, prima di tutto perché la conoscenza che abbiamo della biosfera è ancora limitata. Bisogna però tenere conto della capacità di recupero della natura. Tutte le specie hanno un potenziale di crescita che è sempre molto superiore allo spazio disponibile, e che viene utilizzato per conquistare e il più in fretta possibile eventuali nuovi ambienti, compresi i vuoti provocati dalle attività umane. Di solito, infatti, se per un po’ di tempo viene sospesa la caccia o la pesca, subito le popolazioni si riprendono. Anche così, però, la distruzione di habitat, dimostrata dalla scomparsa di tante specie significative, è un fenomeno talmente imponente da giustificare la definizione data dagli scienziati di sesta grande estinzione.
 
SONO LE SOCIETA’ SVILUPPATE QUELLE PIU’ ECOSOSTENIBILI
Eppure, arrivare alla conclusione che le attività umane sono per loro natura dannose per l’ambiente, sarebbe un errore. Questa però è l’opinione della maggior parte degli ambientalisti: l’uomo è il cancro del pianeta, un’epidemia di “primateia disseminata” che sta uccidendo la vita sulla terra. La crescita demografica, e l’estensione a tutta la popolazione mondiale del modello di consumo occidentale, finirà col rendere la Terra un deserto e compromettere la nostra stessa sopravvivenza.
Da questa visione deriva il concetto di impronta ecologica, secondo il quale più alti sono i consumi, più grande è la pressione esercitata sull’ambiente. Di conseguenza i paesi ricchi sono considerati i principali responsabili dei danni ambientali, mentre quelli più poveri vengono additati come modelli virtuosi da imitare.
Ora, che l’uomo con le sue attività abbia causato e continui a causare innumerevoli danni agli ecosistemi terrestri e marini, non è solo vero, è un’affermazione scontata. Ma l’analisi non può fermarsi qui, perché non è vero che qualsiasi modifica operata dall’uomo provoca dei danni. Inoltre c’è una differenza fondamentale che bisogna cogliere tra le società povere e quelle sviluppate, perché queste ultime, nonostante i loro alti consumi, per ragioni fondamentali sono già oggi molto più sostenibili. Più sostenibili, cioè, di quelle più povere, o di quando esse stesse erano povere.
In primo luogo “tutti” i paesi che hanno conquistato il benessere hanno raggiunto uno stabile equilibrio demografico, mentre i paesi emergenti lo stanno raggiungendo e quelli più poveri hanno ancora alti tassi di crescita. E non ci può essere sostenibilità senza equilibrio demografico. Inoltre l’aumento della produttività agricola, dovuto a migliori tecniche agrarie, ha reso superflua e non più conveniente la coltivazione di molti terreni marginali, con la conseguenza che sono aumentate le aree forestali e che nel bosco è tornata la grande fauna. Ancora: in una economia matura e terziarizzata a crescere sono solo i servizi, e non più la produzione e il consumo dei beni materiali. Infine, una volta soddisfatti i bisogni fondamentali, emergono nella società delle esigenze più sofisticate, tra cui al primo posto quella della difesa dell’ambiente. Le società sviluppate, inoltre, hanno anche la capacità e i mezzi per inventare nuove soluzioni per un uso sempre più efficiente e sostenibile delle risorse primarie e del territorio. Lo dimostrano le coltivazioni idroponiche, che possono aumentare la resa per ettaro ancora di decine di volte, e diminuire nel contempo il consumo di energia e fertilizzanti con opportune sinergie (vedi l’articolo “Coltivazioni idroponiche”). E non c’è praticamente limite a quello che si può ancora fare, oltre a quello che già si sta facendo, per alleggerire la pressione sull’ambiente. I paesi sviluppati hanno già investito molto nella creazione di parchi naturali, nel rimboschimento e recupero di territori degradati, nel salvataggio di specie a rischio ecc. E la stessa cosa stanno cominciando a fare anche i paesi emergenti che, non appena dispongono di un po’ di mezzi, cominciano subito a investire sull’ambiente.
E i risultati si vedono. Nel dopoguerra in Italia la superficie dei boschi è raddoppiata, una situazione comune a tutti i paesi sviluppati. I boschi sono anche meno sfruttati, e oggi pullulano di animali: cinghiali, lupi, daini, cervi, orsi, in precedenza cacciati fino all’estinzione. Inoltre sono state adottate diverse soluzioni per l’abbattimento dei principali inquinanti, che oggi sono attestati su valori pari al 10 / 15 % di quelli che erano stati i livelli massimi raggiunti intorno al 1960.
 
PROSPETTIVE DEI PAESI SVILUPPATI
Questo però non significa che tutti i problemi siano stati risolti, o che l’impegno per l’ambiente debba venire meno.
Una volta l’unico pensiero era quello di sfruttare per quanto possibile le risorse naturali. Ma se oggi la distruzione insensata di immense popolazioni animali ci sembra pura follia, è perché il nostro atteggiamento verso la natura è profondamente cambiato.
Quella consapevolezza, che una volta potevano avere solo dei naturalisti, e a cui hanno contribuito libri come Silent Spring di Rachel Carson, adesso è diffusa in tutta l’opinione pubblica. Nonostante questa consapevolezza, però, i problemi nei paesi sviluppati non sono finiti. Infatti molti interessi possono trovarsi in conflitto con l’ambiente, e provocare nuovi danni agli ecosistemi naturali e l’estinzione di nuove specie. Per esempio, cacciare o commerciare specie rare o in pericolo, inquinare un bene comune come l’acqua o l’aria per evitare il costo di un impianto di depurazione, smaltire in maniera scorretta dei rifiuti pericolosi cedendoli ad organizzazioni criminali che li sotterrano nel primo posto che capita, sempre allo scopo di evitare gli alti costi di smaltimento. E’ per questo che anche nei paesi sviluppati, dove pure le cose sono nel complesso migliorate, non bisogna abbassare la guardia, ed è necessario inventare contromisure sempre più efficaci come per esempio la tracciatura dei rifiuti pericolosi recentemente adottata dall’Italia.
E poi ci sono importanti problemi strutturali che devono ancora essere affrontati. Un volume di materie prime consumate e di rifiuti scaricati nell’ambiente ancora alto, un’agricoltura molto produttiva (e questo in sé è un bene), ma che dipende da troppo poche piante coltivate. Un uso eccessivo di acqua e fertilizzanti, con conseguenti fenomeni di eutrofizzazione, e infine diserbanti e pesticidi sempre più potenti, che rendono le campagne paradossalmente simili a deserti. Ma forse il problema più importante è quello di un consumo di energia ancora troppo alto.
Il problema dell’energia è doppiamente strategico, sia per l’economia che per l’ambiente, e una soluzione soddisfacente possono trovarla solo i paesi più sviluppati. Poiché l’alto del costo dell’energia ha contribuito a scatenare la crisi economica, se lo si potesse abbassare lo sviluppo dei paesi emergenti verrebbe facilitato.
Oggi la soluzione migliore è il gas naturale, Negli ultimi anni sono stati risolti i problemi per estrarre a costi bassi lo shale gas, cioè il gas naturale contenuto nelle rocce argillose e impermeabili, che è decine di volte più abbondante di quello contenuto nei giacimenti convenzionali. E il gas naturale è una soluzione adeguata, oltre che economica, sia per il problema dell’inquinamento che delle emissioni di anidride carbonica.
Dopo il problema dell’energia viene il consumo di fertilizzanti. I fertilizzanti azotati provocano l’eutrofizzazione di molti mari costieri, mentre quelli a base di fosforo dipendono da minerali disponibili in quantità non illimitata. Secondo gli esperti se ne potrebbero usare un terzo in meno senza penalizzare i raccolti. Incide indirettamente sul problema dell’eutrofizzazione anche un eccessivo consumo di carne. Negli ultimi anni la ricerca scientifica ha dimostrato che mangiamo molte più proteine animali del necessario, e che per prevenire le cosiddette malattie del benessere, in Europa dovremmo in media dimezzarle e in America diminuirle ancora di più. E la produzione di proteine animali ha un impatto ambientale da cinque a dieci volte superiore rispetto ai cibi vegetali.
In futuro le coltivazioni idroponiche, man mano che si diffonderanno, risolveranno anche il problema che incide di più sulla biodiversità. I terreni agricoli, liberati dall’agricoltura intensiva, potrebbero così tornare alla loro destinazione originaria, come è già successo per la maggior parte dei terreni marginali.
 
PROSPETTIVE DEI PAESI POVERI ED EMERGENTI
I risultati già raggiunti, e quelli che potranno essere ottenuti in futuro dai paesi sviluppati, sono una chiara indicazione sulla strada che dovranno seguire i paesi poveri ed emergenti. Una strada che però hanno già iniziato a percorrere.
Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza che la foresta è una grande ricchezza da conservare, e che sfruttandola razionalmente se ne può ottenere più di quello che si guadagnerebbe vendendone il legname. Del resto il legno è più conveniente produrlo da apposite coltivazioni, che richiedono meno spazio e che nell’ultima ventina d’anni hanno già sostituito la maggior parte del legname proveniente dal taglio delle foreste. Inoltre molti paesi emergenti hanno già in programma o in attuazione piani di rimboschimento o di bonifica di terreni degradati.
Per quanto riguarda la pesca, la situazione è in qualche modo analoga. Da una parte molti mari costieri continuano ad essere sfruttati oltre la soglia di sostenibilità, e il pescato non aumenta o addirittura diminuisce; dall’altra sono invece aumentati gli allevamenti, il cui impatto sugli ecosistemi marini è più limitato. Una ventina d’anni fa il pesce d’allevamento copriva solo il 10 % del mercato, mentre oggi tale percentuale sta raggiungendo e si avvia a superare l’intero volume del pescato mondiale, che nel frattempo è rimasto stazionario. Certo, la pressione antropica sui mari interni e costieri non è diminuita, ma senza gli allevamenti lo sfruttamento dei mari sarebbe molto maggiore. Occorre comunque usare i fondi pubblici non per incentivare l’acquisto di altri pescherecci, ma per creare zone protette di fermo pesca e proibire le tecniche di pesca più distruttive.
E’ anche urgente proteggere, o proteggere in maniera più efficace, specie importanti in pericolo di estinzione a causa del grande valore economico che viene loro attribuito. Il tonno rosso, il corno di rinoceronte, diverse parti del corpo della tigre ecc. Quando il commercio di questi prodotti è legale, si potrebbero aumentare le tasse. Negli altri casi è assolutamente necessario rafforzare i controlli contro i bracconieri, ma anche proporre al mercato delle alternative equivalenti, ma più accettabili.
E poi c’è il problema di una fortissima crescita del fabbisogno di energia, aggravato dalla bassa efficienza degli impianti e dalla quasi totale assenza di dispositivi per l’abbattimento degli inquinanti. Paesi come la Cina e l’India, per la produzione di energia elettrica ricorrono al carbone, perché hanno consistenti giacimenti sul loro territorio e perché sono in grado di costruirsi da soli le centrali di cui hanno bisogno. Però queste centrali, realizzate con una tecnologia vecchia di 60 anni, hanno un rendimento molto basso, forse la metà rispetto alle centrali a carbone più moderne. Ciò significa che per produrre la stessa quantità di energia devono bruciare il doppio del carbone.
Anche per questi paesi la soluzione migliore è trasferire i consumi dal carbone al gas naturale, e dalle centrali a carbone alle centrali a turbogas: Verrebbe azzerato l’inquinamento e le emissioni di anidride carbonica verrebbero diminuite almeno dell’80%. Purtroppo però ai problemi veri bisogna aggiungere quelli artificiali creati da un ambientalismo ideologizzato e fuori dalla realtà.
 
I DANNI DI UN AMBIENTALISMO IDEOLOGIZZATO
L’ambientalismo può essere considerato un prodotto della civiltà moderna almeno quanto la sesta grande estinzione. Per esempio l’America ha cacciato fino all’estinzione il piccione migratore e ha quasi fatto scomparire il bisonte, il condor della California, il picchio dal becco color avorio e la gru americana, ma è anche il paese che per primo in epoca moderna ha scoperto il valore dell’ambiente. Un ambientalismo che è il risultato di una migliore conoscenza del mondo, e del mondo vivente. Un aumento della conoscenza che è a sua volta frutto di quella stessa rivoluzione scientifica che ha portato l’Europa alla conquista del mondo. Ed è proprio dalla conoscenza che nasce quella consapevolezza che alla fine si trasforma in programmi politici per la conservazione della natura.
In origine era questo l’ambientalismo. Ma in tempi recenti esso si è trasformato in un’ideologia anti sistema. Nel momento in cui la sensibilità ambientale si è diffusa al punto che tutti si dichiarano ambientalisti, essa è stata strumentalizzata per mettere sotto accusa la società moderna in quanto tale. E il nostro modello di economia e di società, già accusato dal marxismo di essere la causa di tutte le ingiustizie sociali (quando è vero l’esatto contrario), adesso viene anche considerato responsabile di tutti i danni all’ambiente.
Non c’è dubbio che questi danni sono la diretta conseguenza della rivoluzione tecnologica. Ma alla fine del percorso c’è una società matura e terziarizzata che è l’unica sostenibile sul piano ambientale. E proprio per questo la soluzione dei gravi problemi ambientali del Sud del mondo passa attraverso il completamento del percorso di sviluppo.
Del resto, quali sono le alternative? L’ambientalismo anti sistema oggi in voga non propone soluzioni. Infatti che soluzione sarebbe il ritorno alla povertà propugnato dai sostenitori dell’impronta ecologica? O è forse praticabile la proposta di ridurre la popolazione umana ad un decimo di quella attuale? Eppure questo ambientalismo deviato prosegue imperterrito per la sua strada, con il risultato di aggiungere danni ai danni.
Si è già detto dell’importanza strategica del problema dell’energia. Ebbene, l’ambientalismo antisistema, coerentemente col suo obiettivo di opporsi allo sviluppo, propone solo delle non soluzioni, delle finte soluzioni o dei palliativi (auto a idrogeno, eolico, domeniche a piedi ecc.). In particolare in Italia ha sempre combattuto le soluzioni migliori che abbiamo (per esempio il gas naturale e le centrali a turbogas) per imporre per imporre delle assolute e costosissime non soluzioni come le cosiddette “energia alternative”. E anche per quanto riguarda i paesi poveri, li si vorrebbe costringere ad usare solo l’energia eolica e fotovoltaica, e a non usare né il DDT in funzione antimalaria né l’ingegneria genetica, necessaria invece per aumentare la produttività agricola.
E’ necessario quindi che l’ambientalismo recuperi i suoi valori originari, e consideri di nuovo la salvaguardia dell’ambiente come il proprio vero obiettivo.
 
LA PERDITA DI BIODIVERSITA’: UN’EMERGENZA DA AFFRONTARE SUBITO
D’altra parte la strada dello sviluppo richiede tempo. Forse fra 50 anni quasi tutti i paesi avranno raggiunto il livello di sviluppo dell’Europa. Nel frattempo, però, ci sono gravi emergenze ambientali che devono essere affrontate. Ma prima di vedere cosa si può fare, bisogna capire meglio perché la biodiversità è così importante e meritevole di essere salvaguardata.
Gli organismi che vivono sulla Terra sono probabilmente centinaia di milioni di specie diverse. Essi, nel corso di quattro miliardi di anni, hanno colonizzato ogni angolo del pianeta, compresi i luoghi più inospitali. Di microorganismi se ne trovano alla temperatura di più di 100 gradi e nel sottosuolo fino a 1.000 metri di profondità. Anche gli abissi degli oceani e il fondo dei mari, ben poco esplorati, ospitano un gran numero di forme di vita.
In quasi quattro miliardi di anni gli organismi si sono adattati ad ogni possibile ambiente e ad ogni possibile situazione. Nel nostro corpo ospitiamo più batteri, che sono da decine a centinaia di volte più piccoli, di quante sono le nostre stesse cellule. In un solo grammo di terreno, con opportune analisi, si potrebbero trovare migliaia di microorganismi diversi. E ciascuno di essi è un sistema estremamente complesso.
Anche quelli più piccoli e semplici, sono costituiti da un insieme di sostanze chimiche complesse, ciascuna delle quali funziona come una efficientissima fabbrica chimica. E’ molto difficile ricostruire in tutti i suoi aspetti il funzionamento di una sola di queste sofisticatissime molecole, migliorata all’infinito da un processo per prove ed errori durato quattro miliardi di anni. Ancora più difficile è individuare la rete di relazioni che collegano tra di loro tutte queste minuscole macchine, e che fanno funzionare la cellula come organismo unitario e ben coordinato.
Ad un livello superiore, negli organismi pluricellulari, si sono evoluti organi complessi per svolgere una grande varietà di compiti, anch’essi incredibilmente perfezionati, come per esempio gli organi specializzati per il volo di insetti e uccelli (come l’insetto della fotografia, che adotta una particolare conformazione delle ali per il controllo del volo). Ogni specie ha subito infinite mutazioni e ricombinazioni genetiche a carico del propri meccanismi biochimici. I prodotti sperimentali così ottenuti sono stati sottoposti al vaglio della selezione naturale, generazione dopo generazione.
Conosciamo, e solo superficialmente, meno di due milioni di specie, e solo circa 6.000 microorganismi di tipo batterico, e di questi solo qualche decina sono stati studiati a fondo. La nostra conoscenza della vita terrestre è quindi molto limitata; eppure gli scienziati scoprono continuamente, a volte per puro caso, proprietà utili negli animali e nelle piante. Per esempio, nelle sanguisughe è stata trovata una molecola che impedisce la coagulazione del sangue, e che è considerata da tempo indispensabile nelle operazioni chirurgiche. Oppure qualche tempo fa in Madagascar sono state trovate in una pianta erbacea altrimenti insignificante, la pervinca rosea (Catharantus roseus), due sostanze efficaci in due delle forme di cancro più spietate: il linfogranuloma maligno, o malattia di Hodgkin, che colpisce soprattutto i giovani adulti, e la leucemia linfocitica acuta, che un tempo costituiva per i bambini una sentenza di morte.
E poi ci sono le enormi potenzialità ancora inesplorate per l’agricoltura e l’allevamento. Sono infatti pochissime le specie di piante e animali finora prese in considerazione per la produzione del cibo. D’altra parte il valore della biodiversità non deriva solo da considerazioni utilitaristiche.
Noi stessi siamo natura. Anche noi siamo emersi e ci siamo evoluti nel mondo naturale. Conoscere la natura vuol dire, quindi, conoscere in qualche modo noi stessi. E poi la natura è anche bella. Le nostre più profonde sensazioni estetiche le proviamo osservando la natura, proprio perché noi stessi ne facciamo parte, proprio perché la natura è l’unico ambiente, l’ambiente per antonomasia, in cui abbiamo sempre vissuto.
Adesso continuiamo a distruggere habitat ricchi di vita in ogni parte del mondo. Tanti altri li abbiamo già distrutti in passato, per praticare l’agricoltura, l’allevamento o la caccia. Ma quello che conta è che continuiamo a distruggerli senza una vera necessità, o per ricavarne vantaggi minimi, o quando potremmo facilmente evitarlo. Un solo contadino peruviano, che incendia un tratto di foresta perché il terreno coltivato in precedenza si è esaurito, forse fa scomparire un numero di specie più grande di quelle che si trovano nell’intera Europa. Tutto questo ricorda la distruzione, avvenuta innumerevoli volte, per motivi casuali o futili, di importanti pezzi del nostro patrimonio storico e artistico.
La via cerimoniale della piramide di Cheope era lunga circa un chilometro, ed era delimitata da due pareti di marmo ricoperte per tutta la loro lunghezza da fini bassorilievi scolpiti. Ci rimangono solo alcuni frammenti di questi bassorilievi, perché i blocchi di calcare con cui erano fatti sono stati usati per produrre della calce gettandoli in una fornace. Certo, 500 anni fa a questi bassorilievi non veniva attribuito alcun particolare valore, ma noi oggi rimpiangiamo che per produrre della semplice calce sia stato distrutto un valore artistico così enorme.
Noi stiamo facendo la stessa cosa con la biodiversità, che ha ancora più valore. In futuro rimpiangeranno le distruzioni che stiamo facendo, così come oggi rimpiangiamo la perdita facilmente evitabile di tante preziose testimonianze storiche e artistiche.
Ma chiediamoci: perché queste testimonianze sono così importanti per noi? Perché quello che siamo in termini di cultura, organizzazione sociale, capacità artigianali, tecniche, artistiche, valori estetici e morali, deriva da lì. Questi monumenti di pietra, queste statue, queste mura affrescate, sono le nostre radici. Ma la nostra vera natura ha radici ben più profonde, che risalgono molto più indietro nel tempo, di milioni e milioni di anni. E’ lì che si sono formati il nostro modo di percepire il mondo, le nostre emozioni, i nostri sentimenti, la nostra intelligenza, la nostra capacità di avere relazioni sociali. Un esempio limitato sono gli adattamenti alimentari, che risalgono indietro nel tempo per milioni e milioni di anni. Le nostre radici affondano proprio in quella biodiversità che con tanta noncuranza lasciamo che vada perduta. E allora dobbiamo diventare più consapevoli, e fare tutto quello che possiamo per evitare ulteriori inutili distruzioni.
Già molte utili iniziative sono state adottate nell’ambito della comunità internazionale, dalla creazione di parchi e riserve naturali, alla moratoria alla caccia alle balene, al protocollo di Rio sulla biodiversità, agli scambi di habitat – natura (accordi con i quali viene annullata una parte del debito delle nazioni più povere in cambio di interventi locali di conservazione ambientale).
Ma non ci si può nascondere dietro un dito. Gran parte dei danni sono dovuti a masse di poveri che, non avendo altre possibilità, occupano sempre nuove aree di foresta. Il problema è aggravato dalle aziende di maggiori dimensioni che si accaparrano i terreni migliori (scacciando i piccoli contadini) per produrre carne o altri prodotti per l’esportazione. In particolare la produzione di carne bovina ha un impatto pesante a causa della grande quantità di terreno necessario per gli allevamenti allo stato brado e per la produzione di mangimi per gli allevamenti in stalla.
Una soluzione potrebbe essere l’offerta sul mercato di nuovi tipi di carne. Ci sono animali che potrebbero costituire una valida alternativa, sia per i mercati interni dei paesi della fascia tropicale sia, almeno come possibilità da verificare, per l’esportazione. Secondo E.O. Wilson, che si è assunto anche l’impegno civile di denunciare la perdita di biodiversità e di cercare delle soluzioni, le tartarughe del genere Podocnemis che vivono in Sud America e che sono ricercate per la loro carne, potrebbero costituire un’alternativa. La più grande, la Podocnemis espansa, raggiunge un metro di lunghezza e 50 chili di peso, e potrebbe essere facilmente allevata in bacini chiusi dove si nutre di piante acquatiche, con una resa per ettaro fino a 400 volte quella di bovini allevati allo stato brado. Un’altra specie la cui carne è pure apprezzata è il capibara (Hydrochoeris hydrochoeris), il roditore più grande del mondo, che ugualmente si nutre di piante acquatiche a rapida crescita e che potrebbe dare una resa per ettaro pari a qualche decina di volte quella dei bovini.
Anche in Africa è importante e urgente trovare delle fonti alternative di proteine che possano allentare la pressione della caccia sugli animali della foresta. Anche qui si potrebbero creare allevamenti di specie locali di tartarughe, uno degli animali che vengono cacciati. E ci sono anche altri animali di cui si potrebbero sperimentare forme di allevamento. Per quanto riguarda i contadini poveri alla ricerca di nuova terra, una parte potrebbe essere impiegata in operazioni di rimboschimento. In Centro e Sud America ci sono grandi estensioni di terreno, una volta ricoperte di foreste, e oggi quasi del tutto sterili.
Sarebbe importante anche tenere sotto stretto controllo tutti gli ambienti di maggiore pregio naturalistico, e a questo potrebbero servire dei piccoli dirigibili automatici, uno solo dei quali potrebbe tenere sotto osservazione un territorio di un milione di chilometri quadrati, a costi inferiori rispetto ai satelliti, e in maniera più ravvicinata e accurata. Naturalmente occorrono anche più dati scientifici, quindi più scienziati e più ricerca, perché la prima condizione perché un habitat non vada perduto, è che sia ben conosciuto. E la precedenza va data alle zone più a rischio. Gli scienziati hanno già individuato i punti caldi della biodiversità, cioè i luoghi dove c’è la massima concentrazione di vita unita al massimo rischio di estinzione. Nell’anno 2000 il costo per il salvataggio dei punti caldi della biodiversità è stato stimato in 30 miliardi di dollari. Anche le altre iniziative per promuovere forme di allevamento alternative e opere di rimboschimento, avrebbero costi tutt’altro che proibitivi.
Un piano su vasta scala per intervenire con urgenza nelle situazioni di maggiore criticità, in modo da mettere al sicuro questo patrimonio per le generazioni future, non avrebbe costi esorbitanti.
Con una spesa non proibitiva potremmo mettere la parola fine alla guerra che l’uomo conduce da migliaia di anni contro la natura. E inaugurare una nuova era di pace. Un’era di pace con il mondo vivente che ci circonda.