Difendiamo la biodiversità (1° parte)

LO SVILUPPO DELLA VITA TERRESTRE

La parola biodiversità è stata coniata una ventina d’anni fa dal biologo e naturalista Edward O. Wilson, in occasione della pubblicazione di un libro che porta lo stesso titolo (ripubblicato di recente da Rizzoli). Un libro ancora attuale, che è anche un vasto compendio di biologia, ricchissimo di informazioni e di spunti che sono stati ampiamente sfruttati nella composizione di questo articolo.
La biodiversità non è altro che l’immensa varietà di organismi vegetali e animali che popolano la Terra. Un patrimonio ricchissimo di forme di vita, di strutture biologiche, un numero quasi infinito di sostanze chimiche complesse e ultra perfezionate che si sono accumulate in quasi quattro miliardi di anni attraverso un processo per prove ed errori chiamato evoluzione. Risalgono infatti a 3,8 miliardi di anni fa le rocce in cui sono state riconosciute le prove più antiche della presenza della vita.
Nella fase più antica della storia della Terra l’attività vulcanica era molto intensa, e i gas delle eruzioni componevano un’atmosfera molto diversa dall’attuale, ricchissima di anidride carbonica e completamente priva di ossigeno. Mancava quindi anche lo strato di ozono, che è ossigeno trivalente, che oggi ci protegge dai letali raggi ultravioletti. La vita quindi poteva svilupparsi solo nel mare, ed era costituita all’inizio da organismi simili agli attuali batteri, molto più piccoli delle normali cellule, privi di nucleo, di mitocondri e cloroplasti. Alcuni di questi organismi, simili ai cianobatteri detti anche alghe azzurre, erano in grado di sfruttare la luce solare ed emettevano modeste quantità di ossigeno. Ma per molto tempo l’ossigeno venivano catturato dagli ioni ferrosi disciolti nell’acqua, con cui si combinava per produrre degli ossidi che precipitavano sul fondo del mare. Ma una volta terminata l’ossidazione del ferro, 2,8 miliardi di anni fa, cominciarono ad apparire i primi organismi aerobici. Nel successivo miliardo di anni il livello dell’ossigeno aumentò fino all’1 %, e 1,8 miliardi di anni fa fecero la loro comparsa i primi organismi eucarioti, cioè gli organismi cellulari dotati di nucleo. Circa 600 milioni di anni fa comparvero, sempre in mare, i primi organismi pluricellulari, strutturalmente molto semplici, conosciuti come fauna di Ediacara dalla località australiana dove sono stati trovati. La fioritura di un vastissimo campionario di forme di vita macroscopiche e complesse, che anticipano la maggior parte delle forme di vita attuali, risale a 540 milioni di anni fa. E’ conosciuta come “l’esplosione del Cambriano”. Anche i pesci compaiono in questo periodo, e già 500 milioni di anni fa la vita nel mare aveva assunto un aspetto essenzialmente moderno. La percentuale di ossigeno nell’aria nel frattempo era cresciuta ed era ormai prossima all’attuale 21 %. Si era formato anche uno spesso strato di ozono, e la vita, finora confinata nel mare, ha potuto finalmente conquistare le terre emerse. A partire da 450 milioni di anni fa le zone di marea e la terraferma vennero colonizzate dalle prime piante e ben presto furono seguite dai primi animali terrestri, all’inizio invertebrati di forma sconosciuta documentati da gallerie scavate nel terreno. Poi sono comparsi i primi ragni, i primi acari, i centopiedi e i primi insetti. Circa 340 milioni di anni fa, all’inizio del Carbonifero, sono comparse le prime piante arboree e le prime foreste.
Il livello dell’anidride carbonica dell’aria, altissimo all’inizio della storia della Terra, era andato nel lungo periodo progressivamente diminuendo. Le eruzioni vulcaniche diminuivano di intensità, e l’anidride carbonica veniva sequestrata dalle rocce carbonatiche e dagli organismo marini, che alla loro morte si depositavano sul fondo del mare (dove poi si sono trasformati in giacimenti di idrocarburi), oppure formavano montagne con i gusci delle conchiglie o gli scheletri dei coralli. La comparsa della vegetazione terrestre aveva accelerato il sequestro del carbonio atmosferico, che però all’inizio del Carbonifero era ancora ad un livello 5 o 6 volte più alto di quello attuale. Anche le altre condizioni che determinano la crescita delle piante, temperatura e umidità, erano favorevoli, e in questo periodo la vegetazione raggiunse la sua massima velocità di crescita e la vita il suo valore massimo di biomassa. Le foreste non sono mai state più lussureggianti, e i tronchi, accumulatisi per decine di milioni di anni gli uni sugli altri, si sono trasformati in giacimenti di carbon fossile.
Anche tra gli insetti c’erano fenomeni di gigantismo: per esempio c’erano scorpioni lunghi un metro, libellule con apertura alare ancora di un metro, centopiedi lunghi alcuni metri ecc. Poco prima, alla fine del Devoniano, erano comparsi i primi anfibi evolutisi da pesci simili al celacanto, che durante il Carbonifero diedero origine ai primi rettili. Nel periodo successivo, il Permiano, il livello di anidride carbonica era ancora 3 o 4 volte quello attuale, e c’è stata la fioritura di insetti e rettili. Questa esplosiva fase di crescita, però, fu interrotta 250 milioni di anni fa da una grande estinzione che segna la fine del Permiano, dell’era paleozoica, e il punto d’inizio dell’era dei dinosauri (era mesozoica).
In quest’epoca il livello di anidride carbonica era ancora 2 o 3 volte quello attuale, la temperatura era più alta di sei gradi, e la vegetazione ancora lussureggiante, cosa che sicuramente ha favorito il gigantismo della fauna terrestre e marina che caratterizza l’era dei dinosauri. A partire da un centinaio di milioni di anni fa, si sono diffuse le piante angiosperme, che hanno a poco a poco sostituito felci e conifere, e forse a causa di questa modificazione dell’habitat è gradualmente scomparsa la maggior parte dei dinosauri. Infine sessantacinque milioni di anni fa, secondo l’ipotesi più accreditata, un grande meteorite ha provocato un cataclisma che cha fatto scomparire gli ultimi dinosauri, dando inizio all’era dei mammiferi (era cenozoica), che però erano già presenti in nicchie secondarie da un centinaio di milioni di anni. Con l’ulteriore diminuzione dell’anidride carbonica il volume della biomassa era andato ulteriormente diminuendo, ma con la diffusione delle angiosperme è aumentata sempre di più la varietà delle forme di vita, cioè la biodiversità, che forse ha raggiunto il suo valore massimo proprio nei tempi più recenti.
Ma oggi i biologi denunciano che, in coincidenza con l’occupazione e lo sfruttamento di tutti gli ambienti terrestri e marini da parte dell’uomo, la biodiversità sta rapidamente diminuendo. Molte specie vegetali e animali e i loro habitat sono già scomparse o stanno scomparendo, come si può dedurre dal fatto che circa un terzo di tutte le terre emerse sono interessate da forme di agricoltura o di allevamento. Da quando, a partire da 600 milioni di anni fa, gli organismi viventi hanno cominciato a lasciare resti fossili riconoscibili, sono avvenute cinque grandi estinzioni, la maggiore delle quali alla fine del Permiano e l’ultima 65 milioni di anni fa. In questo momento, secondo molti scienziati, stiamo assistendo alla sesta grande estinzione, paragonabile alle più grandi estinzioni del passato, dovuta questa volta non a un meteorite, ma alla distruzione da parte dell’uomo di numerosissimi ecosistemi terrestri e marini. Distruzione che tuttora continua.
Ancora 50.000 anni fa, prima cioè della radiazione dell’uomo moderno fuori dall’Africa e dal Medio Oriente, la fauna di grandi dimensioni era molto più ricca e abbondante di quella che conosciamo oggi. C’erano anche grandi popolazioni di cetacei, pesci, animali terrestri e uccelli che in seguito saranno in gran parte o totalmente sterminate. Una grande estinzione che può essere suddivisa in diverse fasi: la radiazione della specie Homo sapiens fuori dall’Africa, l’espansione in epoca storica, la colonizzazione del resto del mondo da parte della civiltà europea e la recente diffusione del modello di stato e di economia moderni.

LA CONQUISTA DEL MONDO IN EPOCA PREISTORICA

La prima occupazione umana dell’Australia è avvenuta circa 50.000 anni fa. Allora il sesto continente era abitato da leoni marsupiali, canguri giganti alti due metri e mezzo, diversi uccelli giganti non volatori pesanti fino a mezza tonnellata e marsupiali erbivori quadrupedi di grandi dimensioni. C’era anche un varano gigante simile al drago di Komodo, lungo sei metri e pesante una tonnellata. Tutti questi animali sono scomparsi nel giro di qualche decina di migliaia di anni.
Anche in America, prima che l’uomo ci arrivasse 13.000 anni fa passando attraverso lo stretto di Bering, il territorio era affollato da molti grossi mammiferi oggi estinti: tre specie di mammut, e poi mastodonti, tigri dai denti a sciabola, rinoceronti lanosi e bradipi terricoli giganti, oltre a cammelli, lupi giganti, bisonti dalle lunghe corna, cavalli, tapiri e svariati tipi di antilopi. Tutti animali che sono scomparsi nei successivi 1.000 anni. Nello stesso periodo qualcosa del genere succedeva in Europa e in Siberia dove, ancora durante l’ultima glaciazione o subito dopo, vivevano l’orso delle caverne, l’elefante dalle zanne diritte, il mammut lanoso, due specie di rinoceronti, un ippopotamo, una forma di bisonte gigante e il cervo noto come grande alce irlandese, alto due metri alla spalla e con immense corna ramificate. Anche questi animali sono scomparsi tra 12.000 e 11.00 anni fa.

Qual è la causa di tutte queste estinzioni? La coincidenza temporale sembra chiara: nell’America settentrionale e meridionale e in Australia, così come poi è avvenuto in tante altre parti del mondo, l’estinzione è arrivata subito dopo la comparsa dell’uomo. Ma l’accusa ai cacciatori preistorici non è condivisa da tutti. Per quanto riguarda l’Australia, innanzitutto non c’è accordo sulla data in cui l’uomo ha fatto la sua comparsa, e sul momento in cui le diverse specie si sono estinte. Inoltre è difficile pensare ad una responsabilità diretta dei primi australiani, dato che questi non erano molto abili come cacciatori. Mancano anche i siti archeologici che dimostrano l’attività della caccia alle grosse prede. Ancora più difficile è pensare che abbiano cacciato, e fino all’estinzione, un animale pericoloso come il varano gigante. Potrebbero però avere contribuito all’inaridimento del clima, avvenuto tra 65.000 e 40.000 anni fa, con la loro abitudine di appiccare incendi che continua anche oggi. Ma anche qui le date non sembrano coincidere. La questione quindi è ancora aperta. Una ipotesi è che abbiano involontariamente diffuso nel continente, rimasto isolato per un tempo lunghissimo, alcune epidemie letali. Ma a metterla in dubbio c’è la constatazione che le estinzioni si sono succedute nel corso di diverse migliaia di anni. In definitiva gli originari abitanti dell’Australia potrebbero aver contribuito alle estinzioni trasmettendo alcune malattie appena approdati in questa nuova terra, e poi con gli incendi e la caccia agli animali più lenti. Ma il loro contributo non può essere stato molto significativo: probabilmente le estinzioni furono dovute tutte o quasi tutte a cause naturali.
I primi uomini che hanno raggiunto l’America 13.000 anni fa durante l’ultima glaciazione, erano invece abili cacciatori. A prima vista la loro responsabilità sembrerebbe più chiara, perchè la coincidenza dei tempi è impressionante. Ma alcune considerazioni rimettono tutto in dubbio. E’ vero infatti che alcuni siti archeologici in Nord America dimostrano la caccia al mammut, ma sono davvero pochi. Inoltre tutte le estinzioni sono avvenute nel giro di un migliaio di anni, e poi da allora non ce ne sono state più. Infine non si riesce a capire perchè una fauna dello stesso tipo non sia scomparsa anche in Eurasia dove l’uomo era presente da sempre. Invece una fauna del tutto simile quanto a varietà e dimensioni, si è conservata sia in Africa che nell’Asia meridionale. E questo nonostante che in epoca preistorica la popolazione africana sia sempre stata molto più numerosa di quella che abitava il resto del mondo (ed è per questo che le grandi ondate migratorie sono sempre partite da lì). Particolarmente difficile da spiegare è anche la scomparsa dell’originario cavallo americano, che viveva in grandi mandrie in Nord e Sud America, e che era tutt’altro che lento rispetto a dei cacciatori a piedi, mentre la popolazione dei bisonti non è stata intaccata.
La causa di tutte queste estinzioni, o forse di quasi tutte, potrebbe essere stata l’aumento di temperatura di 7 o 8 gradi che ha avuto luogo subito dopo il culmine della glaciazione, che potrebbe avere provocato la quasi totale scomparsa delle foreste di conifere dove quasi tutti questi animali vivevano. E’ vero che la stessa grande fauna aveva resistito alle tre precedenti glaciazioni, ma questa volta il cambiamento potrebbe essere stato più veloce, e in più c’era l’uomo che in qualche caso potrebbe avere dato il colpo di grazia. La grande fauna è sempre la più esposta ai repentini cambiamenti climatici, sia perchè è meno numerosa rispetto a quella di taglia più piccola, sia perchè ha un tasso di riproduzione più lento, ma i cacciatori paleolitici potrebbero avere dato un ulteriore contributo attraverso la diffusione di epidemie. Così è stato almeno in un caso. Infatti, studiando i resti fossili degli ultimi mastodonti, sono stati individuati i segni di un’ampia diffusione della tubercolosi, una malattia che può essere trasmessa dagli esseri umani.
Un’altra ipotesi, avanzata qui forse per la prima volta, tira in ballo la diminuzione nel lungo periodo del tasso di anidride carbonica. Nel periodo Carbonifero l’enorme produzione di massa vegetale, dovuta all’altissima quantità di questo gas (che è il principale fattore di crescita delle piante), era accompagnata da paralleli fenomeni di gigantismo nel mondo animale, che allora era costituito solo da alcuni anfibi e diverse specie di insetti. Nell’era dei dinosauri il livello di anidride carbonica e la velocità di crescita delle piante era ancora molto più alta di oggi, e forse per questo i rettili raggiungevano spesso dimensioni gigantesche. Insomma, il gigantismo degli animali potrebbe essere correlato al gigantismo delle piante, a sua volta dovuto ad un’alta concentrazione di anidride carbonica. E poichè nel lungo periodo la concentrazione di questo gas è andata diminuendo fino ai valori minimi di 280 ppm di qualche secolo fa (che poi dal Settecento è risalita fino a 390 ppm), questa potrebbe essere la vera causa della scomparsa della fauna maggiore, sia nelle ultime migliaia di anni che negli ultimi milioni di anni. In altre parole la diminuzione continua della massa vegetale dovrebbe avere reso sempre più difficile la sopravvivenza della grossa fauna, diventata per questo sempre più vulnerabile.

L’ESPANSIONE IN EPOCA STORICA

Rispetto alla preistoria, la civiltà si distingue per la pratica dell’agricoltura e dell’allevamento (che sostituisce l’economia della caccia e della raccolta), per le città, insediamenti stabili che crescono con il tempo, e per una dinamica demografica e una densità della popolazione sul territorio molto più consistente. Le prime comunità di agricoltori sono comparse in Medio Oriente almeno 10.000 anni fa nella cosiddetta “mezzaluna fertile”. Da lì si sono irradiate in Europa, disboscando e mettendo a coltura i terreni migliori, e relegando le preesistenti popolazioni di cacciatori – raccoglitori nei territori marginali. Questi primi agricoltori subirono a loro volta l’invasione delle tribù indoeuropee provenienti dalle steppe a Nord del Mar Nero, che si irradiarono a più riprese verso l’Europa a partire dal 5.000 a.C. Le popolazioni indoeuropee si sono irradiate anche verso Oriente, fino ad occupare la maggior parte dell’India, come risulta dalle indagini linguistiche e genetiche. A queste sono seguite le civiltà più propriamente storiche, cioè quelle che conoscevano qualche forma di scrittura, sia nel Medio Oriente che in India e in Cina, mentre nelle Americhe i discendenti dei cacciatori paleolitici hanno dato origine alle civiltà precolombiane.
Le antiche civiltà hanno distrutto molti habitat per fare spazio all’agricoltura e all’allevamento. I terreni migliori sono stati disboscati o incendiati, e ulteriori danni sono stati provocati da uno sfruttamento eccessivo o da forme di allevamento inadatte. Le regioni più meridionali dell’Europa e del Medio Oriente, dove si sono insediate le più antiche civiltà, hanno cambiato volto. Ancora durante l’Impero Romano il Nord Africa era coperto da fertili savane, e si poteva viaggiare da Cartagine fino ad Alessandria all’ombra degli alberi. I leoni erano diffusi in tutto questo territorio e in Medio Oriente, da dove sono stati a poco a poco sterminati da spedizioni di soldati armati che li catturavano per gli spettacoli nelle arene. Analoghe distruzioni di habitat, più o meno radicali, sono avvenute nel resto dell’Europa e dovunque il territorio sia stato trasformato per fare posto all’agricoltura e all’allevamento.
In epoca storica è avvenuta anche l’occupazione di numerose isole oceaniche mai abitate prima. A partire da 8.000 anni fa sono state colonizzate tutte le isole del Pacifico. Partendo dall’Asia sudorientale l’espansione è proseguita verso Est. Le Isole Figi, Tonga e Samoa sono state raggiunte 3.000 anni fa, l’isola di Pasqua, la più remota di tutte, è stata occupata nel 300 d. C, l’arcipelago delle Hawaii nel 400 d. C. e la Nuova Zelanda nel 1.000 d.C. L’isola di Madagascar, la quarta del mondo per dimensione, è stata colonizza da genti provenienti dall’Indonesia nel 500 d. C. Ciascuna delle isole era abitata da numerose specie endemiche (le condizioni di isolamento sono le più favorevoli per la comparsa di nuove specie), molte delle quali sono state portate all’estinzione.
Per quanto riguarda gli uccelli, quelle scomparse sono la maggioranza, e questa volta la responsabilità è chiara e indubitabile. Si trattava per lo più di uccelli non volatori e senza nemici naturali, non in grado cioè di scappare o di difendersi. Questi animali, come dimostrano le indagini archeologiche, sono stati cacciati fino all’estinzione a scopo alimentare. Nella Nuova Zelanda, tra le specie che si sono estinte, ci sono tutte le tredici specie di moa, uccelli non volatori il più grande dei quali pesava 250 chili. Anche nel Madagascar, la quarta isola per grandezza del mondo, che si è separata dall’Africa 70 milioni di anni fa, sono scomparsi altri grandi uccelli inetti al volo. Uno era alto più di tre metri. Ancora oggi, nei siti archeologici, si possono trovare resti di uova grandi come un pallone da calcio. L’isola di Madagascar è anche l’unico posto al mondo dove vivono i lemuri, sorta di scimmie ancestrali una volta diffuse in tutta l’Africa. Su 17 specie ne sono scomparse 7, quelle di dimensioni maggiori e più interessanti. Tutte queste specie sono scomparse a causa della caccia eccessiva, della distruzione degli habitat per fare posto alle coltivazioni, dell’introduzione di animali estranei come ratti, cani, maiali e capre, e delle malattie che gli invasori hanno portato con sè. Cause che continuano a operare ancora oggi.

LA COLONIZZAZIONE EUROPEA

E’ stata l’Europa a dare la propria impronta alla società moderna. Fin dall’inizio del ‘400 l’Europa cominciò a manifestare nei confronti del mondo islamico, con cui aveva rapporti conflittuali ma anche di collaborazione, una superiorità sia sul piano tecnologico che militare. Alla seconda metà di questo stesso secolo risalgono le esplorazioni di mari ignoti che culminarono nella scoperta dell’America. La navigazione commerciale conobbe un grande sviluppo, ed iniziò la corsa alla sfruttamento delle risorse del pianeta e delle popolazioni indigene che nulla potevano contro le moderne armi da fuoco. Popolazioni di origine europea si sono insediate in tutte le parti del mondo e numerosi nuovi territori sono stati messi a coltura. Anche i luoghi più remoti e selvaggi e gli oceani hanno cominciato ad essere sfruttati, principalmente per ricavarne pelli o olio di balena. Risorse all’inizio estremamente abbondanti come le grandi popolazioni di balene, gli immensi banchi di pesce e le sterminate mandrie di bisonti sono state sterminate o quasi completamente distrutte. Un grande numero di ecosistemi naturali, fino a qual momento intatti o sfruttati in modo primitivo, hanno dovuto fare i conti con forme di sfruttamento efficienti ed organizzate.
Fino ad allora l’uomo aveva sempre dovuto lottare contro la natura per non venirne sopraffatto. La natura selvaggia era vista come una forza ostile, e la civilizzazione non era altro che la vittoria dell’uomo sulla natura. Ma questo atteggiamento è continuato per secoli anche dopo che le moderne tecnologie avevano dato all’uomo una forza distruttiva senza precedenti. La consapevolezza che le risorse naturali costituiscono un grande patrimonio che rischia di andare perduto era ancora di là da venire. Ecco un elenco delle specie animali più significative che sono state cacciate fino all’estinzione, per quanto numerose esse fossero, o che ci sono andate molto vicino.
La maggior parte delle informazioni sulle estinzioni del passato sono state ricavate da un libro molto documentato su questo argomento, “I cari estinti” di Richard Ellis, pubblicato in Italia da Longanesi.

Foca monaca dei Caraibi (Monachus tropicalis). La prima notizia di questo brutale sfruttamento risale proprio alla scoperta dell’America. Nel 1594, durante il suo secondo viaggio, Cristoforo Colombo approdò ad un’isoletta situata a Sud di Haiti, cui diede il nome di Autovelo. Appena sbarcati i suoi uomini uccisero a bastonate otto foche che dormivano sulla spiaggia. Le foche monache allora si ammassavano sulle spiagge del Golfo del Messico, dall’America centrale alla costa Sud degli Stati Uniti, fino alla Florida, a Bahama e Giamaica. Ben presto l’uccisione delle foche per ricavarne olio divenne un’industria che andò avanti per secoli fino all’Ottocento. All’inizio del Novecento ormai non ne rimanevano quasi più, e da allora qualcuno ha fatto dei tentativi di salvarle dall’estinzione, ma alla fine anche le ultime sono state uccise. L’ultima di cui si ha notizia è stata avvistata nel 1952.

Lontra marina (Enhydra lutris). La lontra marina si è salvata dall’estinzione. Essa una volta viveva su tutta la costa occidentale degli Stati Uniti, e forse anche nelle isole Aleutine. Anche la lontra è stata intensamente cacciata per secoli per la sua pelliccia e quasi sterminata. Alla fine ne rimanevano solo due piccole popolazioni, nel Sud della California e in Alaska. Man mano che la lontra veniva cacciata e scompariva, i ricci di mare di cui essa si nutriva proliferavano, fino a provocare la scomparsa della foresta di alghe laminarie giganti che costituiva un rifugio per innumerevoli specie di pesci. Con le lontre scompariva così un intero ricchissimo ecosistema. Oggi però, grazie ad un programma di protezione, la specie si sta di nuovo diffondendo lungo la costa, e con essa riprende vita la lussureggiante foresta di laminarie. Questa storia, quindi, è finita bene, ma la caccia indiscriminata alla lontra marina ha fatto probabilmente un’altra vittima, il dugongo gigante.

Dugongo gigante (Hydrodamalis gigas). Nel 1741 il comandante danese Vitus Bering, al servizio della marina russa, naufragò in una remota isola delle Aleutine, che da lui poi ha preso il nome. Oltre alle otarie e alle lontre marine, i marinai trovarono anche dei “leoni marini giganti”. Dopo che la notizia si era diffusa, le navi partivano appositamente dalla penisola di Kamciatka per sfruttare questa nuova risorsa, e in soli 28 anni i dugonghi giganti vennero sterminati. Questi sirenidi, gli unici che vivevano in acque fredde, erano lunghi nove metri e pesavano fino a nove tonnellate. Avevano uno strato di grasso che poteva superare i 20 centimetri, che secondo le descrizioni aveva un sapore e un odore così gradevoli da non trovare confronto negli altri animali marini. Quando vennero scoperti sopravvivevano solo in quell’isola remota, ma forse in origine erano molto più diffusi. A farli scomparire quasi dappertutto potrebbe essere stata la caccia alla lontra marina, la cui scomparsa faceva scomparire anche la foresta costiera di alghe giganti, dove forse anche il dugongo viveva.

Cormorano dagli occhiali (Phalacrocorax perspicillatus). Sull’isola di Bering e solo lì viveva anche questo grande uccello pesante 5 o 6 chili, dotato di ali troppo piccole per consentirgli di volare. Data la facilità con cui poteva essere catturato, venne cacciato a scopo alimentare da tutti i marinai che facevano tappa nell’isola, fino a farlo scomparire verso la metà dell’Ottocento.

Quagga (Equus quagga). Il quagga era un equide con una zebratura nella parte anteriore del corpo che viveva nella parte meridionale del Sud Africa. Nei primi decenni dell’Ottocento era ancora molto diffuso, ma cominciò ben presto a ridursi di numero principalmente a causa della scomparsa del suo habitat, occupato da fattorie e ranch. Ma veniva anche cacciato per sport. Alla fine dell’Ottocento era già scomparso. Altre specie di grandi erbivori si sono estinte in Africa nello stesso periodo come l’Antilope azzurra (Hippotragus leucophaeus), oppure sono state quasi del tutto sterminate come la maestosa Antilope nera gigante (Hippotragus niger variani), di cui (forse) sopravvive ancora qualche esemplare in un paese come l’Angola in guerra da decine di anni.

Grande alca (Alca impennis). Questo uccello alto più di 75 centimetri, per il quale i francesi coniarono il nome di “pingouin”, era una volta diffusissimo su molte isole nel settore occidentale del Nord Atlantico. Poichè era incapace di volare, era considerato una comoda riserva di carne fresca per le navi che attraversavano l’oceano provenienti dall’Europa, ma esso venne sistematicamente cacciato anche per ricavarne il grasso. L’ultimo esemplare sarebbe stato ucciso nel 1844.

Dodo (Raphus cucullatus). Il dodo era un grande uccello inetto al volo alto quasi un metro, che viveva indisturbato sull’isola di Mauritius perchè la sua carne non era considerata buona da mangiare. Il suo aspetto era goffo e buffo, e questo è il motivo per cui fu preso a bersaglio da marinai portoghesi nella seconda metà del Cinquecento. Scompare definitivamente verso la metà del Seicento.

Bisonte americano (Bison bison). Prima della colonizzazione europea il paesaggio del Nord America era popolato da animali allora molto diffusi e oggi invece o del tutto estinti o quasi scomparsi. Si stima che di bisonti ce ne fossero 50 milioni, ma adesso ne rimangono solo alcune migliaia, e il gruppo più numeroso, circa 4.000, vive nel parco di Yellowstone. Venivano uccisi per impedire alle mandrie in movimento di abbattere i pali telegrafici, per ricavarne le pelli, oppure semplicemente per sport. Spesso venivano cacciati solo per prenderne la lingua, mentre il resto della carcassa veniva lasciato a marcire. Sono stati anche consapevolmente sterminati per eliminare la principale fonte di sostentamento degli indiani, allo scopo di espellerli dalle loro terre senza dover ricorrere ad operazioni militari.

Bisonte europeo (Bison bonasus). Il bisonte europeo ha rischiato più volte l’estinzione nel secolo scorso. Ora sopravvive in alcune migliaia di esemplari in diversi parchi naturali del Centro Europa.

Piccione migratore (Ectopistes migratorius). Un altro importante elemento del paesaggio americano oggi scomparso era il piccione migratore. Era sicuramente l’uccello più numeroso in assoluto. Era presente in miliardi di esemplari nella parte Nord orientale degli Stati Uniti, e quando si spostava, gli stormi si estendevano anche per centinaia di chilometri, oscuravano il cielo e producevano un rombo quasi di tuono. Sono stati cacciati per lo loro carne, e molto stupidamente anche per puro divertimento, fino a farli scomparire dalla faccia della Terra alla fine dell’Ottocento. Insieme al piccione migratore altri importanti uccelli sono stati sterminati o ridotti al lumicino.

Il Tetraone delle praterie (Tympanuchus cupido) della famiglia del gallo cedrone, un tempo molto diffuso dal Mississippi fino alla Montagne Rocciose. Oggi è a rischio di estinzione. Il Chiurlo boreale (Numenius borealis) e il Piviere dorato, anch’essi diffusissimi, diventarono i nuovi bersagli dei cacciatori man mano che il piccione migratore scompariva. Dei due il piviere è sopravvissuto, mentre il chiurlo, un uccello limicolo lungo solo una trentina di centimetri, è estinto. Altri uccelli che hanno subito una sorte analoga sono: l’Anatra del Labrador (Camptorhyncus labradorius) e il Parrocchetto della Carolina (Conuropsis carolinensis), l’unica specie di pappagallo degli S.U. Fino a poco tempo fa era considerato estinto anche il Picchio dal becco color avorio (Campephilus principalis), il picchio più grande degli S.U., con un’apertura alare di quasi un metro.

L’ultimo esemplare era stato visto nel 1944. Ma negli ultimi anni si sono rincorse delle voci su alcuni avvistamenti, e adesso su youtube si possono vedere diversi piccoli filmati che lo mostrano mentre è al lavoro. Il governo americano ha subito stanziato 20 milioni di dollari per la sua conservazione.

Gru americana (Grus americana). Si è salvata dall’estinzione anche la maestosa gru americana. Il suo numero si era ridotto progressivamente fino ad un minimo di una dozzina di esemplari a causa della scomparsa del suo habitat e della caccia. E’ stata però oggetto negli ultimi anni di un impegnativo programma di riproduzione in cattività e di reinserimento nel suo habitat. Oggi gli esemplari sono risaliti a più di 400. Pochi sono però quelli che vivono in libertà, e la sua sopravvivenza a lungo termine non è ancora assicurata.
In un passato più o meno recente sono state salvate anche altre importanti specie animali che altrimenti si sarebbero estinte: il condor della California (Gymnogyps californianus), il cavallo selvaggio di Przeval’skij (Equus przewalskij), l’orice bianco (Oryyx leucoryx), il cervo di padre David (Elaphurus davidianus), il panda gigante (Ailuropoda melanoleuca) ed altri ancora.

LO SFRUTTAMENTO DEGLI OCEANI

Lo sfruttamento del pianeta non si è però limitato alle terre emerse. Le nuove tecniche di navigazione, velieri sempre più grandi e veloci e in grado di attraversare qualsiasi oceano, che nel corso dell’Ottocento sono stati sostituiti da navi a motore, sono stati lo strumento di questa conquista. Fino ad allora la pesca, e la navigazione stessa, avveniva per lo più sottocosta, e le piccole e precarie imbarcazioni a vela o a remi non avevano mai messo a rischio gli habitat marini. Per quanto riguarda poi i grandi cetacei, il loro sfruttamento era certamente di vecchia data, ma di solito si limitava alle balene che di tanto in tanto si arenavano sulle spiagge.
I primi a praticare una vera e propria caccia, e la preda era la balena grigia dell’Atlantico, furono gli abitanti delle coste del mare del Nord o della Manica, caccia praticata con piccole imbarcazioni a remi fin dalla preistoria. I primi invece a praticare una caccia sistematica in epoca moderna, e a provocarne la progressiva scomparsa, furono i balenieri baschi, che attaccavano le balene nere glaciali (Eubalaena glacialis) nelle loro aree di riproduzione nel golfo di Biscaglia. Le balene venivano cacciate per l’olio e per i fanoni, con i quali si facevano molle per carri e corsetti per i busti delle signore (una vera moda nell’Ottocento), mentre l’olio era usato nel riscaldamento, nell’illuminazione, e anche per produrre saponi e altro. Dopo averle praticamente sterminate nel golfo di Biscaglia, i baschi le inseguirono verso Nord, fino ai mari artici al largo della penisola del Labrador. Ma nel frattempo anche le popolazioni nordiche dell’Europa, dell’America sui due versanti atlantico e pacifico, e dell’Asia (russi della Camciatka e giapponesi), avevano scoperto la caccia alle balene a scopo commerciale. Dopo le balene grigie e le balene nere, e man mano che queste scomparivano, fu la volta delle balene boreali o della Groenlandia (Balaena misticetus), cacciate nei loro siti di riproduzione prima al largo delle Spitsbergen, poi nella baia di Baffin, al largo dell’Alaska e a Nord dello stretto di Bering, con flotte di navi baleniere e insediamenti in isole remote per la produzione dei barili di olio. I balenieri uccidevano ogni cetaceo che avvistavano, senza preoccuparsi troppo del calo delle popolazioni. Anzi, c’era la gara a chi arrivava prima. Successivamente fu la volta delle balene grigie del Pacifico (Eschrichtius robustus). Anch’esse, una volta molto abbondanti, ora sono ridotte a piccole popolazioni. Anche le balenottere azzurre (Balaenoptera musculus) e le balenottere comuni (Balaenoptera physalus), le ultime ad essere cacciate perchè troppo veloci e robuste per le piccole scialuppe a remi, inseguite senza sosta nei mari antartici da balenieri norvegesi e britannici, e nell’artico da norvegesi, islandesi e canadesi, non sono mai più tornate ai livelli di un tempo. Per quanto riguarda invece i capodogli (Physeter macrocephalus), i cetacei più impegnativi, l’apogeo della caccia non fu la metà dell’Ottocento, ma la metà del Novecento, quando balenieri giapponesi e sovietici arrivarono a ucciderne 50.000 all’anno.
Nonostante la caccia sistematica praticata dal Seicento in poi, nonostante che sia stato fatto di tutto per sterminale, attualmente solo la balena grigia dell’Atlantico risulta estinta, ma molte altre sopravvivono spesso solo in gruppi sparsi, a volte così piccoli da mettere in discussione la loro sopravvivenza come specie.
Discorso del tutto analogo per quanto riguarda la pesca e la cattura di altri organismi marini. Lamantini, dugonghi, trichechi, foche monache, merluzzi, pesci spada, squali ecc. sono oggi funzionalmente estinti nella maggior parte degli ecosistemi costieri. E le abbondanze storiche delle specie di grande consumo, tonni, marlin, cernie, merluzzi, halibut, razze, passere e alici peruviane, nel passato fantasticamente grandi rispetto alla situazione attuale, sono oggi ridotte a meno del 10% della loro consistenza preindustriale. Per esempio negli anni Sessanta la zona di pesca delle alici peruviane era l’area di pesca più ricca del mondo, con un prodotto annuale che ammontava a quasi dieci milioni di tonnellate; oggi in un anno raramente vengono pescate più di 90.000 tonnellate.