Lo sviluppo dell'Africa

Riassumiamo. Negli ultimi anni la Germania ha chiuso le sue 19 centrali nucleari, già pagate, che non creavano problemi di sicurezza, occupavano pochissimo spazio ed erano ad emissione zero. Per sostituirle ha speso oltre 600 miliardi di qualche anno fa in impianti eolici per una potenza complessiva di 410 GW. Ma con tutta questa potenza non è riuscita a sostituirle ed è stata costretta ad importare grandi quantità di gas dalla Russia. Infine, dopo che è iniziata la guerra contro l’Ucraina, per fare a meno del gas russo ha riaperto le sue miniere di carbone e ne sta importando anche dal Sud Africa.
Ma l’Italia non è stata da meno. Noi non avevamo delle centrali nucleari da chiudere, ma abbiamo chiuso (per la seconda volta!) i nostri pozzi di estrazione del gas, che in un primo tempo abbiamo sostituito con il gas russo e poi, dopo un cambio di governo, con del gas importato dall’Africa centrale. E anche noi abbiamo buttato centinaia di miliardi in anacronistici impianti eolici e fotovoltaici.
Questo mentre da molti anni i paesi “occidentali” cercano di imporre all’Africa, che per la sua crescita ha un disperato bisogno di energia, di non usare i combustibili fossili, di saltare l’industrializzazione e di passare subito alle costosissime e inutili energie alternative.


Le politiche anti sviluppo dei paesi sviluppati.
Inoltre, sempre a causa delle loro idee anti sviluppo, l’Europa e l’America non hanno mai aiutato l’Africa a dotarsi di tutte quelle infrastrutture che considerano indispensabili a casa loro: strade, ferrovie, porti, aeroporti, centrali elettriche, dighe ecc. La loro politica è stata quella della “redistribuzione”. Hanno trasferito all’Africa enormi risorse economiche. Soldi dati ai leader politici per tirarli dalla loro parte, che hanno generato solo corruzione e mai sviluppo. Basti dire che “dal 1970 al 1988, in un periodo in cui era l’occidente a dominare, i flussi di aiuti americani ed europei hanno raggiunto il massimo livello, eppure la povertà in Africa salì dal 11% al 66 % della popolazione”. A dirlo è l’economista africana Dambisa Moyo citata nel libro “La speranza africana” di Federico Rampini a pag 287. Un libro prezioso, ricco di informazioni sull’Africa per lo più sconosciute in Italia, che viene segnalato per un ulteriore approfondimento e che sarà citato più volte in questo articolo.
In un altro punto, a pag. 102, la stessa economista africana ribadisce: ”L’aiuto è fonte di corruzione e inefficienza. Ciò che arriva gratis di fatto mette in difficoltà chi opera in loco in condizioni di mercato. I produttori locali sono incentivati a diventare dei parassiti dell’assistenzialismo”.
In un’altra parte del libro si legge: “In mezzo secolo, dal 1960 a 2010, gli aiuti all’Africa sono più che quintuplicati, al netto dell’inflazione. In questo periodo l’Africa ha ricevuto venti volte gli aiuti che il piano Marshall diede all’Europa. L’unico risultato è stato quello di creare dipendenza, deresponsabilizzare” (La speranza africana – pag 123).
A tutto questo poi bisogna aggiungere le politiche anti sviluppo giustificate da presunte esigenze ambientali. “L’ambientalismo dottrinario si è diffuso a tal punto da diventare il credo ufficiale dei grandi prestatori: governi Usa e Ue, istituzioni internazionali come la Banca mondiale. Perfino a Wall Street la grande finanza americana ha abbracciato il nuovo pensiero unico, per cui spesso i banchieri si rifiutano di finanziare progetti d’investimento che non siano considerati verdi. Non si tratta solo di greenwashing, cioè di darsi una verniciata di verde a scopi di marketing. Le regole di erogazione dei fondi sono cambiate sul serio. L’accesso ai finanziamenti occidentali può essere compromesso, se un paese emergente non obbedisce ai nuovi criteri. Il cui arbitrio è assoluto” (La speranza africana – pag 240).
Questa stessa politica anti sviluppo ha fatto enormi danni anche in Europa, sia all’economia che all’ambiente. Dopo avere distrutto 1.000 miliardi di Euro col solo risultato di aumentare le emissioni di anidride carbonica e di devastare decine di migliaia di chilometri quadrati di paesaggio, la Germania è in recessione. Mentre l’Italia si è impoverita al punto da diventare un paese di serie B. Infine in Africa questa politica anti sviluppo ha spalancato le porte alla Cina.
La Cina sta facendo in Africa quello che l’Occidente non ha mai fatto: strade, porti, aeroporti, centrali elettriche, dighe e fabbriche. Potrà non piacerci, ma è proprio quello di cui l’Africa ha bisogno. E se l’Africa solo adesso sta crescendo, è prima di tutto grazie agli investimenti della Cina, dell’India e di vari altri paesi.
Ma vediamo più in dettaglio quali sono state le cause del ritardato sviluppo dell’Africa.


Il ritardo dell’Africa.
Non sono stati i danni del colonialismo, che pure sono innegabili, perché in diversi paesi dell’Asia e del Centro e Sud America esso è durato diversi secoli, mentre la conquista dell’Africa da parte delle potenze europee è iniziata solo alla fine dell’Ottocento. E negli anni Sessanta, dopo avere ottenuto l’indipendenza, i paesi africani sopravanzavano molte delle attuali tigri asiatiche. Allora erano la Cina, l’India o il Bangladesh a destare le maggiori preoccupazioni per la loro estrema povertà e per la crescita demografica incontrollabile. Perché negli anni seguenti i paesi asiatici hanno conosciuto una crescita straordinaria mentre l’Africa è rimasta indietro?
Dopo la morte di Mao avvenuta nel 1976, la nuova dirigenza cinese aveva davanti agli occhi gli esempi del Giappone, di Formosa e di Hong Kong che, pur non disponendo di un grande territorio o di risorse minerarie, avevano raggiunto i livelli di reddito dei paesi più sviluppati.
Dopo la II Guerra mondiale gli Stati Uniti avevano persuaso il Giappone ad aprire la sua economia al commercio internazionale e da quel momento il Paese del Sol Levante, senza campagne militari e colonie da sfruttare, aveva cominciato a crescere fino a diventare una delle principali potenze economiche mondiali.
La Cina in un primo tempo sperimentò l’economia di mercato in alcune “zone economiche speciali” appositamente istituite. Poi, visti i risultati, estese la liberalizzazione dell’economia a tutto il paese, con i risultati spettacolari che conosciamo. Quasi tutti gli altri paesi dell’Estremo Oriente seguirono il suo esempio, sempre con gli stessi incredibili risultati: non si era mai vista una crescita così veloce!
Alcuni di questi, come la Cina e il Vietnam, sono rimasti comunisti. Paesi comunisti che però hanno adottato la società moderna, cioè la rivoluzione scientifica e tecnologica, l’economia di mercato e la libertà. Sì, anche la libertà. Per esempio oggi in Cina lo spazio di libertà dei cittadini è incomparabilmente più ampio che nell’epoca maoista.
In pratica ha fatto di più l’esempio del Giappone di tutte le guerre combattute dai paesi occidentali per abbattere delle dittature ed instaurare delle democrazie. Guerre che anzi, a volte, hanno ottenuto risultati opposti come in Afganistan e in Libia.
E poi c’è l’India. L’India è la più grande democrazia elettiva, istituita nel 1947 al momento dell’indipendenza. Prima di allora questo grande paese era stato per secoli una colonia inglese e pertanto diffidava del modello di società moderna che, in fin dei conti, era stato inventato in Europa. Per questo aveva stabilito dei rapporti privilegiati con l’Unione Sovietica e aveva imbavagliato l’economia di mercato adottando un’economia statalizzata. Così l’economia è ristagnata. Fino al 1990 quando, dopo il crollo dell’Unione sovietica, l’India ha introdotto delle importanti liberalizzazioni e da allora la sua crescita è stata sostenuta. Infine in tempi più recenti, pressata dalla concorrenza cinese, ha dato un’altra spinta alla liberalizzazione e adesso è in pieno boom economico.
Purtroppo invece in Africa le cose sono andate diversamente.
A partire dalla fine dell’Ottocento quasi tutti i paesi africani erano diventati colonie delle potenze europee. Per questo motivo, una volta ottenuta l’indipendenza, anche loro, come l’India, diffidavano del modello di economia inventato in Europa. Anch’essi simpatizzarono per l’Unione sovietica, perché non aveva dei trascorsi coloniali.
Inoltre in Africa non c’erano degli esempi virtuosi da imitare e gli africani erano più lontani culturalmente dal modello di economia e di società moderna (mentre il Giappone aveva cominciato a guardare all’Europa, che allora dominava il commercio mondiale, fin dalla seconda metà dell’Ottocento).
Negli anni Cinquanta “Nasser in Egitto, Ben Bella in Algeria, Sékou Touré in Guinea scelsero di copiare il modello sovietico nazionalizzando quasi tutto nelle loro economie” (La speranza africana – pag 107). In Etiopia il colonnello Menghistu instaurò una dittatura militare marxista leninista e provocò volontariamente una terribile carestia per domare i ribelli secessionisti del Tigray (La speranza africana – pag 24).
Tutte queste esperienze socialiste si conclusero con dei fallimenti o dei veri e propri disastri umanitari, che contribuirono non poco a peggiorare la situazione.
All’epoca l’economia più sviluppata era quella del Sud Africa, dove però c’era l’apartheid. Gli oppositori venivano incarcerati o scappavano all’estero. E quelli che scappavano trovavano asilo nella Russia sovietica.
Quando nel 1990, sotto la spinta dell’opinione pubblica internazionale, questo regime discriminatorio venne abolito, il momento coincise con il crollo dell’Unione Sovietica. I fuoriusciti tornarono in patria e, finché Nelson Mandela rimase al governo, con il suo prestigio e il suo equilibrio riuscì a mantenere il paese relativamente prospero. Ma quando morì i politici che lo sostituirono, che si erano formati in Unione Sovietica e non capivano nulla della società moderna e dell’economia di mercato, precipitarono il paese nel caos e nell’insicurezza. L’unica cosa che riuscirono a fare molto bene fu di arricchirsi in maniera smodata (vedi il capitolo “Diamanti neri” e gli altri riguardanti il Sud Africa nel libro La Speranza Africana).
Dal canto loro le ex potenze coloniali e l’America non fecero nulla per persuadere i paesi africani ad imboccare la strada dello sviluppo. Anzi, la politica degli aiuti e della redistribuzione ottenne l’effetto contrario. Inoltre in Europa e in America un ambientalismo estremista intriso di visioni apocalittiche e rifiuto del progresso, non solo non ha aiutato, ma ha persino impedito la costruzione di ogni tipo di infrastrutture. Ed è un paradosso della Storia che a diffondere il modello della società moderna in Africa sia stato un paese comunista.


Lo sviluppo degli ultimi anni.
La Cina è la più grande delle tigri asiatiche, alle quali adesso bisogna aggiungere l’India. Sono tutti paesi che ancora 50 anni fa erano poverissimi e che oggi, senza aiuti esterni e senza redistribuzione, hanno superato o sono destinati a superare l’Italia, che invece da molti anni sta tornando indietro. Questi paesi hanno capito cosa bisogna fare per uscire dalla povertà. E oggi lo stanno facendo in Africa.
Del resto l’Africa costituisce una grande opportunità. Infatti proprio perché è partita per ultima nella corsa al benessere, è anche la regione del mondo che ha le maggiori prospettive di crescita. Infatti il periodo più veloce della crescita economica è sempre quello che porta dalla povertà al benessere, perché è trainato dai bisogni primari insoddisfatti.
Il boom economico però non dura molto, solo qualche decina di anni. Dura finché i mercati dei beni materiali che servono a soddisfare i bisogni primari vengono saturati. Da quel momento la loro produzione comincia a diminuire per essere sostituita da quella dei servizi, i quali soddisfano dei bisogni più sofisticati che fanno fare alla società un altro salto di qualità, ma che spingono l’economia con meno forza. Inoltre anche la crescita demografica, che pure spingeva i consumi, a quel punto è venuta meno, e il risultato è un forte rallentamento dell’economia.
Questa frenata è fisiologica e inevitabile, tutti i paesi sviluppati l’hanno conosciuta e oggi sta avvenendo in Cina. Anche se questa diminuzione del PIL può non piacere, è comunque un dato positivo, perché dimostra che i bisogni fondamentali sono stati soddisfatti. Così come è positivo il fatto che l’alto livello di benessere raggiunto viene sempre mantenuto.
Tutto questo però significa che la regione del mondo che ha intrapreso per ultima la strada della prosperità è anche quella che ha davanti a sé il periodo più lungo di robusta crescita economica. Un po’ tutti l’hanno capito, con l’eccezione dell’Europa e dell’America!
Così molti paesi emergenti o già ampiamente sviluppati a partire dalla Cina e dall’India, hanno trovato in Africa un nuovo Eldorado. Non investono i loro soldi per fare della beneficienza, ma così alimentano la crescita del continente africano.
La Cina è cresciuta al punto che non trova più nel suo territorio la manodopera a basso costo di cui ha bisogno, e la va a cercare altrove. “intere industrie cinesi, afflitte da aumenti salariali in casa propria, stanno trasferendo anche nelle aree sub sahariane alcune produzioni ad alta intensità di manodopera come il tessile”. Grazie a questi investimenti “Tra il 2000 e il 2010 molte nazioni africane hanno conquistato una crescita economica superiore al 5% annuo e cinque di loro (Angola, Etiopia, Ruanda, Ciad e Mozambico) hanno superato il 7%, una velocità che consente di raddoppiare il PIL in un decennio (La speranza africana – pag. 118 e 119).
Più di recente è partito il progetto delle nuove via della seta (the road to prosperity): secondo una stima di qualche anno fa, riportata nel libro La speranza africana, la Cina ha trasferito in Africa 85 milioni di posti di lavoro e sta costruendo ogni genere di infrastrutture. Inoltre dalla Cina sono arrivati alla spicciolata un milione di piccoli imprenditori, che pure danno il loro contributo.
Certo, questa crescita non è tutta rose e fiori. Per conquistare dei contratti la Cina e gli altri paesi non esitano a pagare delle tangenti e i lavoratori non hanno tutele sindacali. Però anche il boom economico italiano degli anni ’50 e ’60 non era tutto rose e fiori. Basti pensare alla speculazione edilizia o alle tangenti pagate ai politici. Eppure noi siamo diventati un paese prospero e benestante proprio con quella crescita che, in un secondo tempo, ha reso possibili degli enormi progressi nella tutela del lavoro e il nostro attuale livello di welfare.
Quindi grazie alla Cina, all’India, al Brasile, alla Turchia ecc. quasi tutti i paesi dell’Africa sono passati nella categoria degli emergenti. Ma non c’è solo la crescita del PIL: anche gli altri indicatori dello sviluppo sono in miglioramento, a partire dal dato demografico.
Da un decennio all’altro l’ONU ha tagliato ben 100 milioni dalla popolazione della Nigeria quale era stata prevista per il 2060, e ha ridotto di 350 milioni gli abitanti alla fine del secolo”. E la Nigeria nel 2023 era il più popoloso degli stati africani con 213 milioni di abitanti. Ma i tassi di natalità sono in crollo verticale in tutta l’Africa. In soli cinque anni in Nigeria il numero di figli per donna è diminuito da 5,8 a 4,6. In Mali da 6,6 a 5,7 in sei anni. In Ghana da 4,2 a 3,8 in soli tre anni, mentre il Senegal ha “perso” un figlio per donna in un decennio (dati che si possono leggere su La speranza africana a pag. 39 e 40).
Ma anche gli altri indicatori sono in miglioramento. Per esempio l’urbanizzazione è più veloce in Africa che in qualsiasi altra parte del mondo. Inoltre: “I dati della Banca mondiale e dell’OMS dicono che dal 1990 la mortalità infantile è crollata del 47% e la speranza di vita media si è allungata di 23 anni. Una malattia endemica come la malaria ha visto diminuire i casi del 37%. L’Hiv/Aids è precipitato del 71% in vent’anni” (La speranza africana – pag. 132).


La politica anti sviluppo dell’Europa e dell’America.
Finalmente anche l’Africa è partita, ma non per merito dell’Europa e dell’America. Ma a cosa è dovuta la paradossale politica anti sviluppo dei paesi più sviluppati?
Alla base c’è il pregiudizio ideologico secondo il quale la società moderna non sarebbe sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale, quando invece è vero l’esatto contrario (vedi l’ampia analisi del tema Ambiente e sviluppo pubblicata in questo sito).
Dopo la fase di crescita che porta dalla povertà al benessere, soddisfatti i bisogni primari, emergono dei bisogni più sofisticati tra cui quello di tutelare l’ambiente. Però i sentimenti pro ambiente della gente sono stati strumentalizzati da movimenti ambientalisti di ispirazione marxista che li usano come un’arma per combattere la società “capitalista”. E questo ambientalismo ideologico, purtroppo mai contrastato, si è diffuso in maniera pervasiva.
Secondo Lenin “il capitalismo è incapace di migliorare il tenore di vita delle masse popolari, che malgrado il progresso tecnico vertiginoso rimangono ovunque oppresse dalla miseria e dalla sottoalimentazione” (citazione da La speranza africana – pag. 121). Un’affermazione che però è smentita dalla crescita economica moderna, che in due secoli e mezzo ha triplicato la speranza di vita media mondiale.
Marx vedeva il grande divario tra i padroni delle fabbriche e gli operai, e pensava che questi ultimi fossero poveri perché erano sfruttati. Ma le sue categorie mentali erano ancora quelle del passato, quando l’economia era un gioco a somma zero e ci si poteva arricchire solo impoverendo qualcun altro. Marx non aveva capito che le nuove fabbriche aumentavano di decine di volte la produttività del lavoro e la disponibilità di beni di ogni tipo. Così come non ha capito che anche il commercio crea nuova ricchezza.
Marx pensava che i “capitalisti” erano ricchi perché sfruttavano gli operai. Ma chi erano in realtà questi primi imprenditori? Erano degli artigiani e commercianti benestanti o degli ex nobili già abituati a gestire le proprietà che ancora possedevano. E che investivano del denaro, spesso preso a prestito, in attività produttive invece di goderlo o tesaurizzarlo.
Inoltre Marx non ha capito che la vera causa della povertà e delle profonde disparità sociali di tutte le altre epoche è la crescita demografica esponenziale, che le rende entrambe inevitabili. Una crescita illimitata della popolazione che proprio la società moderna sta facendo cessare. Infatti sono quasi trent’anni che, in media mondiale, il numero di nuovi nati ha smesso di aumentare: un risultato epocale!
Questo stesso pregiudizio ideologico attribuisce alla società in cui viviamo anche il colonialismo: “tutte le sofferenze che abbiamo inflitto a quel continente sono la prova che noi siamo l’impero del Male, gli unici portatori del virus della conquista violenta, dell’oppressione e dello sfruttamento, dell’imperialismo coloniale” (La speranza africana – pag 61).
Questo però è un totale rovesciamento della verità storica, perché furono le società pre moderne, certo europee, a volere le colonie, mentre è stata la società moderna pienamente sviluppata che le ha abolite. A volerle erano state le teste coronate dell’Europa oppure dittatori come Mussolini, che erano nemici dichiarati della società moderna e liberale. E del resto non è stato il colonialismo a rendere ricca l’Europa, ma la moderna economia industriale. Per esempio l’Italia era un paese povero e arretrato quando aveva “l’impero coloniale”, ed è diventata prospera e benestante quando le colonie non le aveva più.
Stesso discorso per la schiavitù: la società moderna non è responsabile della schiavitù, che è anch’essa un’eredità del passato; anzi, è stata proprio la società moderna ad abolirla fin dall’inizio dell’Ottocento, prima in casa propria e poi nel resto del mondo. Prima di allora, dovunque nel mondo e anche in Europa, la grande maggioranza della gente viveva in uno stato di schiavitù di nome o di fatto. In Africa poi la tratta degli schiavi durava da migliaia di anni.
Infine l’altra accusa che viene rivolta alla società moderna è di non essere sostenibile sul piano ambientale. Il motivo è che durante la crescita che porta dalla povertà al benessere la produzione dei beni materiali aumenta di decine di volte, e di conseguenza anche la pressione sull’ambiente. Però questa crescita è la conseguenza della povertà del passato. Infatti per debellare la povertà bisogna per forza aumentare la produzione dei beni che soddisfano i bisogni primari.
Inoltre non crescono solo i consumi pro capite: con la transizione demografica, necessaria per raggiungere l’equilibrio tra natalità e mortalità, la popolazione aumenta di 7 o 8 volte. Di conseguenza i consumi pro capite devono essere moltiplicati per altre 7 o 8 volte.
Già solo per il fatto di porre fine alla crescita demografica, la società moderna dovrebbe essere considerata l’unica sostenibile. Però essa è la più sostenibile anche per degli altri motivi. Dopo che sono stati soddisfatti i bisogni primari, la produzione dei beni materiali comincia a diminuire per essere sostituita da quella dei servizi che non sono altro che beni immateriali, che oggi nei paesi più sviluppati coprono i tre quarti dell’economia. Inoltre i beni di cui abbiamo bisogno li produciamo con sempre maggiore efficienza, cioè usando sempre meno risorse naturali, tanto che i paesi più sviluppati sono oggi, quasi da ogni punto di vista, molto più sostenibili di 50 o 60 anni fa. E la situazione sarebbe ancora migliore se non fossero bloccate con dei pretesti ambientali proprio le tecnologie migliori che abbiamo per i principali problemi di oggi (allo scopo di continuare ad accusare la società in cui viviamo di essere la causa di ogni male).
In questo momento l’Africa, come tutti i paesi emergenti, si trova nella fase in cui è necessario aumentare la produzione dei beni che servono a soddisfare i bisogni primari e questo sta aumentando la pressione sull’ambiente. Però, come nei paesi che si sono sviluppati per primi, ben presto anche in Africa i beni materiali sono destinati ad essere sostituiti in misura preponderante dai servizi.


Il problema dell’immigrazione.
Prima di completare il discorso sull’Africa è d’obbligo un accenno all’immigrazione. Che è un problema solo se è illegale. Molte aziende hanno bisogno di personale per determinate mansioni e non lo trovano, e chi desidera venire in Italia per svolgere questi lavori può farlo con un regolare permesso. Gli immigrati regolari, dall’Africa o da qualsiasi altra parte del mondo, aiutano la nostra economia, sono i benvenuti e non costituiscono un problema.
E’ la stessa situazione in cui si trovavano gli italiani che nella prima metà del dopoguerra emigravano per lavoro in altri paesi europei: per essere assunti dovevano avere un contratto di lavoro (che potevano ottenere tramite l’Ufficio del lavoro), e un posto in cui dormire. Anche loro non erano degli immigrati irregolari.
Invece oggi in Italia abbiamo qualche milione di immigrati irregolari molti dei quali, dopo avere speso tutti i loro risparmi per attraversare il mare con i barconi, non hanno nulla con cui vivere, fanno la fame, oppure vivono di espedienti e attività illegali. Certo, altrettanti un lavoro l’hanno trovato e si stanno integrando, ma hanno comunque dovuto pagare gli scafisti e attraversare il mare in questa maniera precaria e pericolosa.
Però molte forze politiche, in Europa e persino in Italia, sostengono che dovremmo spalancare le porte all’immigrazione clandestina. Ma per quale motivo? Probabilmente per punire un paese capitalista e, cosa ancora peggiore, mediterraneo!
Chi vuole l’immigrazione irregolare considera una colpa (invece di un grande successo) l’alto livello di benessere che abbiamo raggiunto; un’ingiustizia verso chi è rimasto indietro, da punire con l’immigrazione selvaggia. Salvo poi fare di tutto per impedire ai paesi più poveri di intraprendere la strada dello sviluppo e della prosperità.
La soluzione di questo problema è semplice: bisogna pretendere che gli altri paesi europei e le loro associazioni “umanitarie” stiano dalla parte del diritto e della legalità e non si facciano complici dell’immigrazione illegale e degli scafisti.


Rendere la crescita più veloce e sostenibile.
Ad ogni modo, a dispetto dell’Europa e dell’America e anche degli scafisti, negli ultimi anni l’Africa ha innestato la marcia della crescita, anche se avrebbe potuto farlo molto prima. Ma cosa possiamo fare oggi per rendere questa crescita ancora più veloce e, perché no, più sostenibile?
Per accelerare la crescita bisogna prima di tutto rendersi conto che la strada per la prosperità non è quella dell’economia statalizzata. Infatti “Gli esperimenti della prima fase socialista si conclusero con altrettanti fallimenti, senza eccezioni”. Anche “L’idea di uno sviluppo tutto autarchico che tenga lontani i malvagi investimenti stranieri, laddove è stata applicata, ha generato solo miseria” (La speranza africana – pag 109 e 280).
L’Africa dovrebbe invece imitare i paesi che hanno avuto successo, sia in Medio Oriente e Nord Africa che a Sud del Sahara. Oltre alla Turchia, che fin dalla seconda metà dell’Ottocento guardava all’Europa e che da qualche anno è entrata a far parte della categoria dei paesi più sviluppati, ci sono gli emirati del Golfo persico e l’Arabia Saudita, che hanno capito che possono raggiungere la prosperità senza dover rinunciare alla proprio storia, alla propria religione e alla propria identità.
Per quanto riguarda l’Africa a Sud del Sahara, il libro “La speranza africana” nel capitolo “Successi recenti? Invisibili ma veri” cita tra gli esempi virtuosi il Gabon, Mauritius e il Botswana. A cosa è dovuto il loro successo?
L’isola di Mauritius e il Botswana hanno “un sistema che premia le politiche centripete a scapito di quelle centrifughe, promuove élite inclusive invece di quelle che si creano rendite politiche aizzando il fanatismo della propria base e l’odio per l’avversario” (pag. 131).
Un’altra questione importante è quella della sicurezza. Per esempio “In Sudafrica ci sono 47 omicidi all’anno per 100.000 abitanti. In proporzione alla popolazione la percentuale dei morti ammazzati è sei volte maggiore che negli Stati Uniti. L’Europa ha livelli ancora più bassi. In Estremo Oriente sono microscopici.” (La speranza africana – pag 218). A quanto pare il numero di omicidi è inversamente proporzionale al livello di sviluppo o alla velocità della crescita.
Queste, insieme agli investimenti di paesi come la Cina e l’India, sono le condizioni più importanti. Per il resto lo sviluppo è alimentato dal desiderio di migliorare la propria condizione di vita, che è molto forte negli africani, anche perché hanno capito che questo è un obiettivo raggiungibile.
Ma lo sviluppo è importante anche per la sostenibilità ambientale, come dimostrano i paesi più sviluppati che sono oggi molto più sostenibili di mezzo secolo fa. Ma cosa si può fare per diminuire l’impatto ambientale durante questa indispensabile fase di crescita? Le cose più importanti sono: aumentare l’efficienza dell’agricoltura e della produzione di energia.
Rendere più efficienti le centrali elettriche vuol dire bruciare meno combustibile, cosa conveniente anche dal punto di vista economico. Una centrale a carbone di modello recente è più costosa, ma può al limite dimezzare la quantità di combustibile che bisogna estrarre, trasportare e bruciare.
Stesso discorso per il gas. In diversi paesi del Centro Africa ci sono dei giacimenti di gas che a volte viene bruciato inutilmente appena sale in superficie quando si estrae il petrolio. Usare questo gas e usarlo in maniera più efficiente nelle centrali a turbogas significa anche qui abbattere l’inquinamento e le emissioni di anidride carbonica.
Quello delle emissioni dei gas serra è un problema globale. Diminuirle in Africa o in Cina ha la stessa importanza che diminuirle in Europa. Allora perché l’Europa continua a distruggere delle immense risorse economiche per degli impianti eolici e fotovoltaici che, come dimostrano l’Italia e la Germania, sono quasi del tutto inutili? Non sarebbe meglio aiutare i paesi più poveri a dotarsi di impianti più efficienti? Si otterrebbe molto di più con molto meno. Inoltre l’energia elettrica diventerebbe meno costosa e più accessibile e potrebbe sostituire la legna da ardere, ancora molto usata per cucinare, che è molto più inquinante e non è adatta ad alimentare la crescita economica.
Anche la modernizzazione dell’agricoltura è importante, perché aumenta le rese per ettaro e risparmia il territorio, che è la principale risorsa ambientale. Utile potrebbe essere anche l’ingegneria genetica, che aumenterebbe le rese agricole e diminuirebbe il consumo di pesticidi. Ma la condanna ideologica di questa tecnologia, contraddetta dai dati scientifici, ne impedisce l’uso anche in Africa (vedi l’articolo: Piante geneticamente modificate).
Infine questo sito ha rilanciato la proposta di una produzione di carne alternativa all’allevamento dei bovini. Nelle regioni dell’Africa occidentale ricche di foreste, paludi e corsi d’acqua ma povere di terreni da pascolo, il fabbisogno di proteine è ancora soddisfatto dalla caccia agli animali della foresta. Questa soluzione potrebbe abbassare il costo delle proteine e diminuire la pressione sulla fauna selvatica (vedi il paragrafo “Carne a basso impatto ambientale” nell’articolo: Destra e sinistra?).
Ma la società moderna ha già le soluzioni anche per i più importanti problemi globali. Innanzi tutto l’energia nucleare, che è l’unica vera alternativa ai combustibili fossili e che è economica, pulita e sicurissima. Poi le auto elettriche che abbatteranno i consumi del 90%. La Cina ha quasi monopolizzato l’estrazione e la lavorazione del litio e del coltan, necessari per le batterie. Ma questo monopolio sta frenando la diffusione dei veicoli elettrici in molti paesi, che non vogliono passare dalla dipendenza dai combustibili fossili a quella delle batterie. Però ci sono già delle batterie ancora più performanti a base di sodio, che è meno costoso e molto più abbondante, anche se dovremo aspettare ancora qualche anno prima che vengano messe in produzione.
Infine c’è una nuova tecnologia che potrebbe diminuire la pressione della pesca sugli ecosistemi marini. E’ quella della moltiplicazione delle cellule staminali in coltura, con la quale si possono produrre già adesso carne, pesce e molluschi “sintetici”.
Sono queste le soluzioni più importanti sulle quali i paesi più sviluppati dovrebbero concentrare i loro investimenti, invece di distruggere colossali risorse economiche con le assurde “energie alternative”.
Prima però bisogna liberarsi del pensiero unico imperante, che ha trasformato l’epocale arretramento della povertà degli ultimi decenni in un “aumento della ricchezza”. Evidentemente per questo ambientalismo elitario l’uscita dalla povertà di miliardi di persone non ha alcun valore!
All’origine c’è sempre la condanna ideologica della società moderna, che non è la fonte di ogni male come molti pensano, ma l’unico modello sostenibile sia sul piano sociale che ambientale mai comparso nella storia umana.