La cronica debolezza dell’economia ferrarese alla luce dell’analisi storica
di Vincenzo D’Orazio
Nel prendere atto dello stato dell’economia ferrarese e della sua permanente arretratezza, non se ne sono mai approfondite le cause, vorrei dunque esprimere alcune mie personali valutazioni alla luce di un’analisi storica, partendo molto da lontano, dalla situazione politica ed economica della nostra provincia negli anni del primo dopoguerra.
Occorre ricordare che alle elezioni amministrative del 1919 le forze della sinistra avevano raggiunto la maggioranza nel Consiglio comunale. Questa circostanza, che si realizzava in contemporanea all’affermazione della grandiosa rivoluzione proletaria in Russia, aveva convinto le forze politiche e sindacali di poter finalmente vincere il secolare confronto con il potere economico rappresentato soprattutto dai proprietari terrieri, i cosiddetti “agrari”. La lotta politica e sindacale, già aspra, si accentuò e giunse a forme di autentica violenza, con morti, pestaggi, atti vandalici (dall’una e dall’altra parte) culminante nell’eccidio del Castello del 20 dicembre 1920, quando dalle finestre del Castello estense ignobili cecchini, rimasti ignoti, spararono sul corteo avversario manifestante in Corso Giovecca e Corso Martiri della Libertà uccidendo cinque persone. Questo triste evento contribuì ad accelerare l’affermazione del fascismo che fece di Ferrara, per tutto il “Ventennio”, uno dei principali centri del proprio potere.
Non c’è bisogno di ricordare che due dei quadrumviri della marcia su Roma, Italo Balbo e Michele Bianchi, erano ferraresi, e che nel Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943 ben cinque dei diciannove votanti l’ordine del giorno contro Mussolini erano ferraresi. Se i cinque nostri concittadini avessero votato in maniera diversa, la storia avrebbe preso un’altra piega. Si può quindi affermare senza ombra di dubbio che Ferrara è stata determinante sia per la nascita che per la fine del fascismo.
Caduto il regime, nella nostra città ritornarono al potere gli eredi di quelle forze socialiste e comuniste che avevano operato negli anni ’20 per l’affermazione delle masse operaie e che, sconfitte, avevano atteso e sognato in silenzio la rivincita. Queste forze amministrative e soprattutto sindacali, riprendendo il potere non si erano però accorte che non avevano di fronte gli stessi “agrari” del primo dopoguerra, ma una nuova classe imprenditoriale che aveva trasformato l’economia ferrarese. Infatti i proprietari terrieri, pur rappresentando ancora la forza economica più importante, non erano più i vecchi latifondisti, padroni delle ferriere di una volta, ma erano diventati imprenditori moderni, certamente all’avanguardia in Italia. Essi avevano modernizzato l’agricoltura, in cui, per la prima volta, era comparsa la frutticoltura e si erano dotati di strumenti tecnologici di prim’ordine (frigoriferi industriali, centri di assistenza sparsi sul territorio attraverso il Consorzio agrario, allevamenti zootecnici ecc.).
Purtroppo i nuovi sindacalisti ed amministratori non si erano accorti della nuova realtà economica e, ancora permeati di una cultura ideologica anti-capitalistica, restaurarono il vecchio rapporto conflittuale, attraverso manifestazioni sempre più intense che culminarono in una serie di scioperi – è importante ricordarlo – solo provinciali, che durarono anni e che raggiunsero l’apice nel 1954 con uno sciopero protrattosi ben 101 giorni, durante il quale era stata imposta con ferocia l’inattività totale nelle campagne e nelle stalle. Ciò portò alla morte di diverse centinaia di capi di bestiame, malgrado l’intervento della Prefettura e Questura che ordinarono poi ai carabinieri di sostituirsi ai braccianti per abbeverare e sfamare gli animali sofferenti.
Il sottoscritto, trasferitosi in provincia di Ferrara nel 1953, fu testimone di tali eventi e ricorda, una volta finito lo sciopero con la resa degli “agrari” l’uscita de “L’Unità” che con un articolo in prima pagina firmato da Giuseppe Di Vittorio, titolava: “Vittoria”. La Storia, a mio giudizio, ha dimostrato invece che per la nostra provincia fu una grande sconfitta, dalle cui conseguenze non ci siamo più risollevati.
Gli “agrari” battuti svendettero il patrimonio zootecnico ferrarese, forte di 60.000 bovini, soprattutto ad imprenditori della provincia di Modena e di Mantova che, non a caso, oggi sono diventate le più ricche nel settore delle industrie alimentari di derivazione zootecnica. I frigoriferi industriali, già esistenti, entrarono in crisi e il centro dell’orto-frutta emiliana si spostò in Romagna. Ma, soprattutto, gli agrari ferraresi si chiusero in se stessi, cercando solo di difendersi al meglio e rinunciando così a tutti i progetti di sviluppo che avevano avviato.
Proprio quindi negli anni del boom economico e dell’industrializzazione, la provincia di Ferrara si trovò invischiata in una guerra di retroguardia e non si accorse che il treno del progresso stava passando e che si stava dirigendo verso altri lidi. Oltre all’agricoltura anche il settore industriale fu penalizzato dalla lotta sindacale, per cui non si verificò a Ferrara il fenomeno dell’espansione di nuovi insediamenti intorno a realtà industriali esistenti, dovuti alla intraprendenza e all’esperienza acquisita di capi reparto o di operai specializzati che diventavano a loro volta imprenditori. Non si spiega, ad esempio, perchè intorno alla Zenit, una delle principali industrie calzaturiere italiane, non naque nessuna nuova fabbbrica come successe invece in altre zone del nostro paese, ma anzi, nel giro di alcuni anni la stessa Zenit cessò di esistere.
Questa situazione, frutto di una cultura che vedeva nell’imprenditore solo il “nemico” e lo “sfruttatore” della classe operaia si protrasse per almeno un ventennio. Nel merito vorrei dare testimonianza di un altro episodio a cui ho personalmente assistito, che può ben far comprendre quanto una certa mentalità fosse diffusa, e quanto, anche a distanza di trent’anni dalla fine della guerra, persisteva una situazione culturale alla base della nostra arretratezza economica. Nel 1972 o 73 nel Consiglio comunale di Cpparo, un consigliere di minoranza (dell’allora Msi) il farmacista dott. Caretti, chiese di intitolare una delle nuove vie che si stavano realizzando a Vezio Bertoni, fondatore della Berco (una delle principali industrie del ferrarese), ma non fece in tempo a terminare il suo intervento in aula che fu sopraffatto dalla fragorosa reazione di tutta la maggioranza alle grida: “Quell’affamatore del popolo – quel succhiatore del sangue degli operai – quello sfruttatore arricchito sulla nostra pelle non avrà mai una strada o una piazza intitolata a suo nome”.
Per troppi anni la lotta ideologica, che nella nostra provincia è stata particolarmente virulenta, rifiutando tutto ciò che in qualche modo potesse essere associato al periodo fascista, non permise di comprendere che l’economia ha bisogno innanzitutto del capitale per poter crescere. Quando le forze politiche di sinistra e sindacali si accorsero dell’errore, tentarono di recuperare il tempo perduto, ma fortemente in ritardo rispetto alle altre provincie. Solo per dare un esempio vale la pena di ricordare che il primo insediamento per favorire lo sviluppo artigianale e della piccola industria, il Centro artigianale San Giorgio, fu realizzato solamente nei primi anni ’80, mentre insediamenti analoghi nelle provincie oggi più ricche si erano realizzati già negli anni ’60.
Oggi la cultura politica dei sindacati, che rimane ancora tra le più influenti nelle istituzioni ferraresi, culla spesso di nuovi amministratori locali, non è certamente più quella del dopoguerra, ma per il bene della collettività, ci si deve augurare sia stato davvero definitivamente estirpato quel seme di intransigente settarismo ideologico che tante conseguenze negative ci ha procurato nel corso degli anni e della nostra peculiare storia economica e politica.
(Pubblicato nel “nuovo Corriere Padano” nel numero di gennaio – febbraio 2006)