EINAUDI
Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro.
Nè in Italia, nè in Francia, nè in Spagna, nè in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finchè esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato di tipo napoleonico. Gli uomini di stato anglosassoni, i quali invitano i popoli europei a scegliersi la forma di governo da essi preferita, trasportano inconsciamente parole e pensieri propri dei loro paesi e paesi nei quali le medesime parole hanno un significato del tutto dverso. Forse i soli europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e questi non hanno nulla da imparare, perchè quelle parole sentono profondamente da sette secoli. Essi sanno che la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro consiglieri e sindaci o presidenti o borgomastri, ma da sè, senza intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a questa sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo fanno prosperare. L’autogoverno continua nel Cantone, il quale è un vero Stato, il quale da sè si fa le sue leggi, se le vota nel suo Parlamento e le applica per mezzo dei propri consiglieri di Stato, senza uopo di ottenere approvazione da Berna; e Berna, ossia il governo federale, a sua volta, per le cose di sua competenza, ha un Parlamento per deliberare le leggi sue proprie ed un Consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti questi consessi ed i 25 Cantoni e mezzi Cantoni e la Confederazione hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro o governo più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie dei ministri più piccoli. Così pure si usa governare in Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni e principati; così si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni canadese, sudafricana, australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da sè le proprie faccende locali (che negli Stati Uniti si dicono anche statali), senza attendere il la od il permesso dal governo centrale. Così si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel Congresso nordamericano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche coperte nei Cantoni o negli Stati; ed essersi guadagnato una qualche fama di onesto ed esperto amministratore. La classe politica non si forma da sè nè è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via quelle delle cose nazionali od interstatali più grosse.
La classe politica non si forma tuttavia se l’eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l’opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l’eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?
Finchè esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spettano al Consiglio municipale ed al sindaco, al Consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’Interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica dell’intero Stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l’iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l’approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali. Chi governa localmente di fatto non è nè il sindaco nè il Consiglio comunale e provinciale; ma il segretario municipale o provinciale. Non a caso egli è stato ormai attruppato tra i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed era la logica necessaria deduzione del sistema centralistico. Chi, se non un funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente, attraverso le prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare ogni più piccola faccenda locale? Se talun cittadino si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposa è: non sono ancora arrivate le istruzioni, non è ancora compilato il regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno. A nessuno viene in mente del ministero, l’idea semplice che l’eletto locale ha il diritto e il dovere di interpretare lui la legge, salvo a rispondere dinanzi agli elettori della interpretazione data? Che cosa fu e che cosa tornerà ad essere l’eletto del popolo in uno Stato burocratico accentrato? Non un legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui ufficio principale è essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti, consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di finanza, ed a Roma, presso i ministri, sottosegretari di Stato e, meglio e più, perchè di fatto più potenti, presso i direttori generali, segretari, vicesegretari ed uscieri dei ministeri. Il malvezzo di non muovere la “pratica” senza una spinta, una raccomandazione non è recente nè ha origine dal fascismo. E’ antico ed è proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando l’orologio, diceva: a quest’ora, nella terza classe di tutti i licei di Francia, i professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o privvate, elementari o medie od universitarie, tutto dipende da Roma: ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine degli esami, materie insegnate. I fascisti concessero per scherno l’autonomia alle università; ma era logico che nel sistema accentrato le università fossero, come subito ridiventarono, una branca ordinaria dell’amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i deputati elevassero querele contro quelle che essi imprudentemente chiamarono le camorre dei professori di università, i quali erano riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti e di costumi antiaccentratori a poco a poco originati dal loro spirito di corpo, a togliere ai ministri ogni potere di scegliere e di trasferire gli insegnati universitari e quindi ogni possibilità ai deputati di raccomandare e promuovere intriganti politici a cattedre. Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito di una frazione della sovranità popolare, ogni resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a far valere la volontà dei loro amministrati appariva camorra, o sopruso, privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del ministero, attraverso i prefetti, si converte nella tirannia degli eletti al Parlamento. Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell’Interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun presidente del Consiglio può rinunciare ad essere ministro dell’Interno se non vuol correre il pericolo di vedere “farsi” le elezioni contro di lui dal collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare quel ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese, favori di ogni altra specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l’esito delle pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo, più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.
Da “Il Buongoverno” di Luigi Einaudi.
Anno 1944